Non c’è più lavoro. È inutile illudersi. La solenne promessa di una società a piena occupazione era solo una brutta utopia. Non mancano certo le cose da fare, ma oggi non c’è più un sistema economico e produttivo in grado di dispensare lavoro per tutti. Come scriveva Jeremy Rifkin già nel 1995, il lavoro salariato ha i giorni contati.
Quando il lavoro è una fregatura
La produzione industriale sta calando rovinosamente, migra verso altre sponde, insegue i paesi dell’Est, la manodopera a basso prezzo. I dati sono incontrovertibili, e non vanno imputati alla crisi finanziaria: il calo della produzione industriale che viaggia sul 10% annuo, con il settore automobilistico che supera la quota del 20%. Aveva ragione Aldo Cazzullo alla radio quel giorno quando viaggiavo in macchina. Rispondendo alla domanda indignata e insofferente di un precario diceva: «Non si può continuare a rincorrere il lavoro che fugge».
Un discorso che qualche anno fa avrei bollato come neoliberista e forse anche un po’ snob. Ma che col passare del tempo mi sembra sempre più vero: lo possiamo rallentare, puntando i piedi, gettando bastoni tra le ruote in corsa, ma il processo in corso corre forte e finirà per travolgerci.
Abbiamo tutto il diritto di imprecare contro la delocalizzazione. Eppure chi si ritrova improvvisamente senza lavoro in fondo è una vittima sacrificale di quello che chiamiamo progresso. La verità è più banale di quanto si creda: con l’evoluzione della tecnica gli esseri umani diventano sempre più superflui. Il problema è che invece di utilizzare la tecnica per lavorare di meno e farlo meglio, la utilizziamo per lavorare di più, produrre in quantità merci che non servono a nessuno. Resta il fatto che per il capitale il fabbisogno di forza-lavoro diventa sempre più marginale. Secondo Rifkin, se nel 2010 il 12% della popolazione in età occupazionale lavorava nelle fabbriche, nel 2020 arriveremo al 2%. Io dico che dovremmo essere più realisti, recuperare il motto «lavorare meno, lavorare tutti». Oppure non lavorare affatto. Perché il lavoro non è un diritto desiderabile, ma è solo una delle possibili strategie per soddisfare dei bisogni. Possiamo avere diritto al cibo, all’acqua, alle cure sanitarie, all’istruzione pubblica. Ma non al lavoro in sé. Il lavoro non è certo un bisogno fondamentale dell’uomo. Abbiamo bisogno di relazioni soddisfacenti, di amore, di nutrimento per il corpo e per lo spirito. Ma a noi non serve un lavoro. Abbiamo già abbastanza cose da fare come coltivare l’orto, imparare qualche arte, prenderci cura dei figli.
Il lavoro poi fa male. Logora, intossica, uccide. Non è solo colpa delle fabbriche che sputano veleni. Il nodo è nella sua stessa natura di lavoro salariato, di chi lavora perché viene costretto, di chi diventa schiavo dell’ambizione sociale. A Bonn c’è un istituto che ha effettuato una ricerca su 2000 soggetti in carriera. Il quadro descritto è deprimente: a tutti piace lo scatto di stipendio, ma con il passaggio di livello aumentano stress e malattie. Risultato: la carriera genera un’euforia con le gambe corte, che dura al massimo tre anni.
Ma non bisogna scoraggiare i volenterosi. Nei prossimi anni in Europa ci sarà sempre più spazio per l’inventiva e molto meno per la produzione di massa, che dislocherà inevitabilmente in Cina. E non vorrei nemmeno buttar via l’idea di lavoro in sé. Chi sceglie di lavorare in sintonia col proprio progetto di vita, assecondando un talento o una propria indole, farà solo del bene a sé e agli altri. Un conto è realizzare se stessi, seguire il proprio processo di individuazione, un conto è vendere l’anima al diavolo.
Perché, come diceva lo stesso Marx, nel lavoro salariato l’operaio mette all’asta tutta la sua vita, ogni giorno, «al migliore offerente, al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti». Bella fregatura. Le alternative al lavoro salariato non sono idee così peregrine. In Germania c’è un ampio movimento che chiede il salario minimo garantito non vincolato all’offerta di lavoro. E a Londra la New Economics Foundation propone 21 ore di lavoro alla settimana. Una soluzione vantaggiosa per tutti: per gli esseri umani, per il Pianeta e per lo stesso mercato del lavoro. Prima o poi saremo tutti costretti a lavorare meno, o non lavoreremo affatto.
–
Dal 1977 Terra Nuova è il punto di riferimento per le esperienze e le discipline del cambiamento:dall’alimentazione naturale all’agricoltura biologica e alla medicina non convenzionale, passando per la bioedilizia, la permacultura, gli ecovillaggi, la maternità consapevole, la ricerca interiore, la finanza etica e tanto altro.
Chi si abbona a Terra Nuova o riceve un abbonamento in regalo ha diritto a:
– il 15% di sconto sui libri di Terra Nuova Edizioni
– 2 annunci gratuiti nello spazio “Bacheca”
– sconti per gli eventi organizzati da Terra Nuova
–