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Questione animale: che cosa è cambiato?

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Anna Mannucci è una delle voci più note dell’animalismo italiano. Laureata in filosofia presso l’Università statale di Milano, come giornalista si è occupata di animali per numerose testate sin dagli anni ’80, proponendo un approccio nuovo e fortemente etnografico alla relazione umani-animali. Le abbiamo chiesto di rievocare per noi alcune tappe significative della storia dell’animalismo italiano.
Questione animale: che cosa è cambiato?

Anna, intanto grazie per aver accettato questa intervista. Innanzitutto, ci puoi spiegare come si è evoluta la questione animale nel nostro Paese?

Seguire le evoluzioni del diritto è un buon filo conduttore: ricordiamoci che le leggi sono il frutto di particolari contesti culturali e che, a loro volta, influenzano la cultura e la società in cui vengono applicate. E nel nostro Paese, nel corso degli ultimi trent’anni, la legislazione sugli animali è cambiata completamente, in meglio. A partire dalle «Norme per la protezione della fauna omeoterma e prelievo venatorio» del 1992 (n.157/92), spesso definita impropriamente «legge sulla caccia», mentre si occupa in realtà della tutela della fauna.
Questa legge ha rappresentato un notevole cambiamento culturale, in quanto considera gli animali selvatici come un bene comune piuttosto che come «selvaggina» gestita dai cacciatori. La fauna è diventata «patrimonio indisponibile dello Stato», il quale può autorizzare i cacciatori a effettuarne dei prelievi limitati.
Rivoluzionaria è stata anche la «Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo» (281/91), quasi unica al mondo, che ha riconosciuto il diritto alla vita a cani e gatti che, in precedenza, nei canili pubblici venivano sistematicamente uccisi. Oggi i veterinari possono sopprimere cani e gatti solo per gravi e non curabili motivi di salute.
Il nostro Paese era invece meno avanzato per quanto riguarda la tutela degli animali «da reddito» ma, su questo piano, ha recepito la legislazione europea, introducendo alcune riforme importanti incentrate sul concetto di animal welfare (benessere animale).
Rispetto agli animali «da laboratorio», il Decreto legislativo n.26 del 4 marzo 2014 «Attuazione della Direttiva n. 2010/63/UE sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici» rappresenta sicuramente un passo in avanti. Ci sono state anche leggi di adeguamento a convenzioni internazionali come la «Cites», che si occupa del traffico internazionale di animali e piante in pericolo di estinzione.

E da un punto di vista non legislativo?

Al di là delle leggi, le trasformazioni che si sono verificate nella società italiana hanno avuto chiaramente importanti ripercussioni nella relazione con gli animali. Come sappiamo, gli animali da affezione sono aumentati moltissimo. Lo mostra anche il grande volume di affari del mercato dei pet o ancora l’evoluzione della figura del veterinario che, oggi, si occupa soprattutto di animali da compagnia.
Sono nate moltissime associazioni animaliste, come la Lav (Lega antivivisezione), che è forse quella più nota, ma in realtà esistono tante altre organizzazioni, anche locali. Inoltre, il vegetarismo è più diffuso e l’utilizzo di testimonial scelti fra personaggi famosi, come fa per esempio la Lav, ha contribuito a cambiare la percezione pubblica degli animalisti.
Personalmente, credo anche che il crollo del comunismo nel 1989 e il conseguente allentarsi di una logica di contrapposizioni abbia favorito l’animalismo: la protezione degli animali domestici ha smesso di essere considerata come «un’attitudine piccolo borghese», un’etichetta che negli anni ’70 era molto sprezzante.
È interessante notare come, durante il lockdown, sia stata garantita da subito la possibilità di uscire con i propri animali da compagnia, o quella di portarli dal veterinario.
Anche in università, dove il ruolo e il benessere degli animali nella nostra società era un soggetto assai poco considerato, il diritto degli animali è diventato materia di seminari e di corsi post laurea. Purtroppo, secondo me, si fa ancora troppo poca ricerca sul campo.

Esiste un luogo comune, molto persistente, secondo il quale chi ha a cuore la vita o il benessere degli animali si disinteressa degli umani. Che cosa ne pensi?

La contrapposizione fra impegno per gli animali e impegno per gli esseri umani è storicamente falsa e sociologicamente non provata. Purtroppo, solo a chi si occupa di animali viene sollevata questa stupida obiezione. Una persona non può occuparsi di tutto. Non rimproveriamo a chi si occupa di minori di trascurare le persone anziane. Analogamente, non chiediamo a una persona che si occupa di donne, di occuparsi anche di uomini. Molte tradizioni culturali e filosofiche danno spazio e importanza agli animali. In Italia, purtroppo, l’utilitarismo, la corrente filosofica in cui si situano Jeremy Bentham e Peter Singer, è sempre stato poco compreso e apprezzato. Ha compensato parzialmente una diffusa sensibilità cristiana volta alla difesa e alla protezione dei più deboli.

Che cosa ha significato per te la chiusura dello stabilimento di Green Hill?

Un grande successo. Si trattava di uno stabilimento di produzione di animali destinati alla vivisezione (tutti Beagle, che sono molto docili) situato a Montichiari, un piccolo comune nella provincia di Brescia. I cagnolini erano destinati ai laboratori di tutta Europa. La lotta è stata innanzitutto un’iniziativa locale, che però si è allargata, diventando un movimento di massa spontaneo, al di là dell’implicazione delle grandi organizzazioni animaliste. Solo alla fine, la Lav, con la sua efficacissima macchina organizzativa, ha svolto un lavoro fantastico riuscendo a dare in adozione tutti i 2700 beagle che erano stati trovati nello stabilimento.

Nel tuo libro Il nostro animale quotidiano, metti in guardia contro le forme estremistiche di animalismo. Puo spiegarci meglio?

Io credo che ci voglia molta tolleranza e democrazia. I piccoli gruppi che propugnano il veganismo come obbligatorio adottano, secondo me, una strategia sbagliata: la gente non ti segue, non succederà mai. Credo inoltre che la realtà sia molto complessa e ponga problemi che è difficile risolvere sempre in modo netto. Qualsiasi scelta etica, anche in campo umano, non risolve tutti i problemi.
«Animalista» è colui che si pone il problema morale del trattamento degli animali, di tutti gli animali, non solo dei pet. E tuttavia, dopo aver tolto le barriere fra umani e animali, si apre un vasto campo di rapporti e di contraddizioni per cui non esiste necessariamente una risposta univoca.

Quali sono le principali sfide dell’animalismo oggi?

Sono sempre le stesse: maltrattamento, caccia, vivisezione, vegetarismo, protezione degli ambienti naturali in favore degli animali selvatici. Purtroppo, rimane molto da fare. Credo anche che le pene per le violazioni delle leggi che proteggono gli animali dovrebbero essere più severe.

Nel tuo lavoro, privilegi spesso un approccio etnografico e antropologico. Il tuo articolo sulle gattare è veramente molto interessante. Vuoi accennarci come si è evoluta nel tempo questa figura?

Un tempo, la «gattara» era soprattutto considerata una donna marginale ed emarginata che si prendeva cura dei gatti di strada. Il termine, del resto, aveva forti connotazioni dispregiative. La legge 281, che ha abolito la «pena di morte» per i gatti senza padrone, ha attribuito alla gattara un ruolo di utilità sociale e le ha fornito degli strumenti legali e istituzionali per far valere i diritti dei propri protetti. In questo contesto, il suo impegno implica un’intensa rete di relazioni sociali, così come la comprensione delle leggi e dell’articolazione delle istituzioni che si occupano di animali. Di conseguenza, la composizione sociale e il profilo psicologico delle gattare sono cambiati.
E poi, occuparsi delle colonie di gatti non sembra più essere una prerogativa solo femminile. A Milano, per esempio, pare che circa il 30% dei gattari siano uomini, prevalentemente neo-pensionati, anche se non mancano i giovani.

Nel corso della tua carriera, hai notato un cambiamento nel giornalismo che si occupa di animali?

All’inizio si trattava di un soggetto quasi esclusivamente «appaltato» a veterinari e a scienziati. Io, negli anni ’80-’90, ho proposto un giornalismo d’inchiesta sul rapporto con gli animali. Era un modo di scrivere nuovo e piaceva. Oggi, quasi tutte le testate parlano di animali anche se, purtroppo, le inchieste giornalistiche continuano a essere poco numerose.
 

Glossario

• Animali non umani. Espressione adottata nella nostra società per non contrapporre più in modo netto gli esseri umani agli altri animali e ricordarci che siamo noi stessi degli animali.
• Animalista. Colui che si oppone, sul piano pratico e filosofico, al trattamento ingiusto degli animali da parte degli esseri umani e ritiene che ogni singolo animale abbia dei diritti, sia un individuo degno della nostra considerazione morale.
• Specista. Termine coniato dallo psicologo inglese Richard Ryder per indicare coloro che discriminano sistematicamente degli animali in funzione delle specie a cui appartengono.
• Antispecista. Persona che, pur non negando le differenze esistenti fra le specie, ritiene che siano tutte ugualmente meritevoli della stessa considerazione morale.
• Zoofilo. Persona che ama, frequenta, cura e protegge alcune specie di animali da compagnia.
• Gattara/gattaro. Persona che nutre e accudisce ogni giorno dei gatti di strada.
• Vegetariani. Coloro che, per ragioni etiche, non si nutrono di alimenti direttamente derivati dall’uccisione di animali.
• Vegani. Coloro che, per ragioni etiche, non si nutrono di qualsiasi alimento di origine animale, compresi latte, latticini, miele e uova, né acquistano prodotti fatti con materiali che implicano lo sfruttamento o la sofferenza degli animali, come cuoio e seta.
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Novembre 2021

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