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Re:common: «La tentazione della ripresa “costi quel che costi”»

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Come riemergeremo nel post-pandemia? Si proseguirà sulla strada della transizione energetica? E se sì, come? Efficace, pulita o funzionale al sistema? Tanti i timori fondati, poche le risposte e per nulla chiare. Vi proponiamo l’intervento di Re:Common.
Re:common: «La tentazione della ripresa “costi quel che costi”»
Qui l’intervento integrale di Re:Common, comparso anche sul numero di giugno di Terra Nuova:
«Il collegamento tra pandemia ed emissioni di CO2 rappresenta forse l’unica buona notizia che ha caratterizzato i terribili mesi di lockdown in Italia e nel resto del mondo. Molti governanti hanno utilizzato in maniera strumentale e superficiale l’espressione «guerra al virus» per invogliare all’unità nazionale, producendo una generale disattenzione e una mancata riflessione circa le concause di questa pandemia e le scelte per arginarla.
Eppure, guerra e Covid-19 risultano in qualche modo collegati, quando si pensa che era dai tempi della Seconda Guerra Mondiale che sul nostro Pianeta non venivano registrati crolli così rilevanti di emissioni di CO2. In Cina la riduzione è stata tra il 17% e il 25% nel corso dei primi quattro mesi del 2020; in Italia, nel mese di marzo ne sono state prodotte il 35% in meno rispetto all’anno precedente. Questi dati sono dovuti soprattutto al crollo del numero dei voli aerei e dei trasporti. Occorre però riflettere su come in un paese quasi completamente bloccato non si sia riusciti a diminuire le emissioni neanche del 50%; da ciò si deduce quanto alto sia il contributo delle nostre centrali a carbone.
Nell’impianto di Torrevaldaliga (Civitavecchia) la produzione è continuata, nonostante la gente sia stanca di convivere con una fonte inquinante così pericolosa. In questa area ogni anno muoiono circa 700 persone di tumore e 850 per malattie cardio-respiratorie; con l’arrivo della pandemia, non chiudere la centrale ha rappresentato un grosso rischio. Le proteste dei lavoratori davanti alla centrale hanno acceso i riflettori su alcuni dubbi che accompagnano la ripresa: dove andrà l’Italia dopo questo lockdown? Questa diminuzione di emissioni sarà duratura o rappresenta un’eccezione? Ci sarà spazio per la transizione energetica? Sarà peggio di prima?
Molti osservatori a livello nazionale e internazione ritengono che la crisi economica post-pandemia rappresenti una minaccia per la transizione energetica. Dopo la chiusura, molte imprese saranno «costrette» a recuperare il tempo perduto aumentando la mole di lavoro. Purtroppo a questa situazione si è aggiunta un’altra stangata: il crollo del petrolio. «Lo shock subito dal mercato del greggio è storico, brutale, estremo e di portata planetaria» ha detto l’Opec+, alleanza formale tra Opec (Organization of the petroleum exporting countries) e altri membri esterni, tra cui spicca la Russia. Siamo di fronte al prezzo più basso del greggio negli ultimi diciotto anni; la riduzione drastica e improvvisa della domanda e l’aumento dell’offerta hanno sancito, il 20 aprile scorso, il crollo del 305% del petrolio texano rispetto alla quotazione di apertura. L’Opec+ aveva comunque provato a prevenire una diminuzione della domanda riducendo il costo del greggio del 23% rispetto ai livelli di ottobre 2018. Questo però non è bastato.

Rinnovabili a rischio?

Per molti imprenditori concentrati sulla ripresa «costi quel che costi» questa potrebbe rappresentare un’opportunità. Comunque sia, il dato chiaro è che una discesa tale del prezzo del petrolio lo rende molto più competitivo rispetto ad altri combustibili fossili e soprattutto rispetto alle rinnovabili. Accantonare oggi la transizione energetica, già molto lenta nel nostro Paese, significa non aver capito quanto i cambiamenti climatici saranno all’origine delle future pandemie, significa non voler mettere in discussione un modello che riesce a creare sia le condizioni di passaggio animale-uomo del virus (deforestazione e allevamenti intensivi), sia le condizioni di trasmissione rapida fra umani (accelerazione delle merci e degli spostamenti), sia l’incapacità di risponderne (privatizzazione dei sistemi sanitari e incidenza degli stress polmonari da inquinamento).

Il digitale non «lavi le coscienze»

E non pensiamo che sia il digitale a «salvarci» o a permetterci di «ripulirci la coscienza», come una manna dal cielo, solo perché, secondo l’esperto di turno, con lo smart working e le vendite online riduciamo gli spostamenti e quindi l’emissione di inquinanti dei mezzi di trasporto! Il digitale ha un’altra faccia della medaglia, che non può essere assolutamente ignorata. E non è solo quella legata ai problemi di privacy correlati alle App o a chi incamera i dati personali e sensibili che ogni giorno forniamo utilizzando i tanti dispositivi che utilizziamo.
C’è un dato che sta sfuggendo di mano: quanta CO2 produciamo ogni giorno online? Perché, badate bene, ne produciamo eccome. Quanta energia serve per raffreddare i server sui quali «girano» milioni di gigabytes? Quante emissioni provocano e quanta energia serve per processare questo materiale con le complesse analisi dei Big Data che alcune multinazionali portano avanti quotidianamente? In un tale contesto, le multinazionali del gas «naturale» dipingono questo combustibile fossile come fondamentale e imprescindibile per la transizione energetica.
In realtà stiamo vivendo in una bolla, bersagliati da milioni di parole, da migliaia di «esperti in qualcosa», non possiamo più distinguere i fatti dalle opinioni faziose.

Pochissima lungimiranza

Prima di questa epidemia avevamo due fatti sul tavolo: la pubblicazione del Piano energia e clima (Pniec) italiano e le votazioni rispetto al Green Deal europeo (ancora non deliberato). Il Pniec ci mostra ancora una volta un’Italia poco coraggiosa sulle rinnovabili e una sostituzione progressiva di petrolio con gas che non ha alcuna giustificazione se non con il mantra «il gas è il male minore per accompagnare la transizione». Nel Pniec italiano, fino al 2040 si pianifica un sistema incentrato sul gas il quale, però, dovrà magicamente scomparire nell’arco di dieci anni per rispettare gli accordi di Parigi.
L’altra riforma sul piatto è il Green Deal europeo: dai dati in circolazione al momento parliamo di circa 400 miliardi di euro di finanziamenti, di cui 300 miliardi di investimento privato o di singoli Stati e 100 miliardi provenienti dall’EU Just Transition Fund; in totale, fra questa riforma e altre misure collegate alla transizione, si realizzeranno investimenti pubblici e privati per circa 1000 miliardi di euro in dieci anni. Il rischio per l’Italia è il solito: soldi a pioggia per cambiare tutto in modo tale che tutto resti com’è. Se tutti gli investimenti andranno in gasdotti, in conversioni delle centrali a carbone, in centrali a turbogas, nella costruzione di depositi Gnl (Gas naturale liquefatto), con o senza epidemia non ci sarà una vera, sostenibile transizione energetica».
 
Re:Common è un’associazione che fa inchieste e campagne contro la corruzione e la distruzione dei territori in Italia, in Europa e nel mondo.
INFO E CONTATTI: www.recommon.org
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Articolo tratto dalla rubrica Voci dal territorio: energia

Leggi la rubrica su Terra Nuova Giugno 2020
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