L’editoriale che apre il mensile Terra Nuova ottobre 2013 “Se in Siria si spara con le nostre armi”, pone un’attenta riflessione su armi, interessi economici e future generazioni.
Se in Siria si spara con le nostre armi
In tutto il mondo sono in atto ben 25 guerre, ognuna delle quali ha causato lo scorso anno almeno mille morti. E’ questa infatti la condizione in base alla quale un conflitto viene “catalogato” come tale. Come se non bastasse, puntualmente, a scadenza quasi regolare, si profila all’orizzonte un nuovo conflitto, dove per motivi “umanitari” diventa necessario sganciare bombe “intelligenti”.
Il rischio Siria sembra per il momento allontanato. Ma perchè, nonostante le fallimentari esperienze in Afghanistan, Iraq e Libia, si continua a ricorrere alla guerra per risolvere conflitti grandi e piccoli?
Da sempre il movimento pacifista ha denunciato la collusione tra industria delle armi e governi belligeranti. Un sospetto nutrito anche da Papa Francesco, che si è chiesto pubblicamente se ogni nuova guerra non sia in realtà un pretesto “per vendere armi o incrementare il commercio illegale”. In effetti, al di là degli interessi geopolitici delle varie potenze, la posta in gioco sembra essere soprattutto di carattere economico.
L’industria delle armi produce il 2,5% del prodotto interno lordo mondiale. Per questo motivo, la fine della guerra in Iraq è stato un vero disastro per i bilanci dei governi coinvolti, che su scala globale hanno denunciato una riduzione del 5% del Pil.
“Oggi riusciamo a prevedere le guerre studiando i flussi del commercio di armi e delle spese militari” spiega Francesco Vignarca, coordinatore della Reta Italiana per il Disarmo. “La Siria, nei cinque anni precedenti al 2011, prima che la guerra civile iniziasse, ha aumentato l’import di armi, comprese quelle prodotte in Italia, del 580%, cioè quasi sei volte. Negare che non ci sia un legame tra questo foraggiare con le armi alcune zone del globo e lo scoppio dei conflitti vuol dire negare l’evidenza”.
Non è certo un caso che anche la Turchia, confinante con la Siria e sostenitrice dichiarata del fronte antigovernativo, abbia anch’essa incrementato l’importazione di armi, trasformandosi nel secondo acquirente non solo dei sistemi militari italiani più sofisticati, ma anche delle cosiddette “piccole armi” fabbricate in gran parte nel distretto bresciano. E’ soprattutto in questo settore che gli affari con la Turchia hanno visto una vera e propria impennata, guarda caso, proprio in coincidenza con l’inizio delle sollevazioni popolari in Siria.
Dalla sola provincia di Brescia, negli ultimi tre anni sono state esportate in Turchia munizioni, pistole automatiche e fucili mitragliatori per oltre 79 milioni di euro. A indignare l’opinione pubblica sono soprattutto le bombe e gas tossici ma “le vere armi di distruzione di massa” amava ripetere Kofi Annan “non sono le bombe, ma le armi leggere”. Armi facili da trasportare, nascondere, acquistare, rivendere e utilizzare.
Armi che trasformano intere generazioni di ragazzi, alla ricerca di riscatto e giustizia, in slot machine viventi per chi quelle armi, in Italia e all’estero, vende o produce.
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