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Sulla sommità di un fior di loto

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Le montagne, lontane dal trambusto della vita urbana, sono state storicamente il sito di numerosi monasteri buddhisti e centri di pratica. Ma per Thich Nhat Hanh, detto affettuosamente Thây, le montagne hanno un significato particolare…

Sulla sommità di un fior di loto

Nel suo nativo Vietnam, all’età di 11 anni, questo monaco zen ora rinomato in tutto il mondo, andò per un picnic con la scuola sulla montagna di Na Son dove, così aveva sentito, abitava un eremita che praticava per diventare un Buddha.
Sperando segretamente di incontrarlo, scalò la montagna, ma non trovò nessuno. Alla fine il ragazzo si arrese e fu da quel momento che cominciò ad apprezzare la bellezza del paesaggio. Dopo aver camminato per un bel po’, incantato da tutto quello che lo circondava, ad un certo punto iniziò a sentire il rumore dell’acqua che gocciolava in un pozzo. Poco dopo si inginocchiava a bere da quella fonte di acqua cristallina. “Era come se avessi incontrato l’eremita faccia a faccia” scrisse più tardi Thây. Fu in quel momento che prese la decisione di dedicare la propria vita ad essere un monaco.
Ora, all’età di ottant’anni e giunto alla fine di un esilio di quarant’anni dal suo Vietnam, Thây spesso usa le montagne come una metafora nei propri insegnamenti. A Plum Village, il suo principale centro di pratica nel sud della Francia, e nel corso dei suoi ritiri attorno al mondo, spesso porta insieme la punta delle dita per formare una montagna, e canta dolcemente: “Sono solido come una montagna, sono stabile come la terra, sono libero”.
Durante il ritiro al Green Mountain Dharma Center, il centro fondato dai suoi studenti nel Vermont, Thich Nhat Hanh ha invitato a riconoscere le qualità della montagna in noi stessi: forza interiore, stabilità, abilità di superare gli inevitabili alti e bassi della vita. Le montagne sono simboli sacri di una costante presenza di quiete. Noi vediamo il sole che sorge e tramonta, le stagioni che passano, la luce e i colori sul versante della montagna che mutano in continuazione… la montagna invece non si muove mai. Thich Nhat Hanh incoraggia i giovani a fare un buon uso della propria montagna interiore, così da non essere sempre influenzati da ciò che altre persone dicono e fanno, in modo da essere più veri a se stessi. 
Nel suo libro, Insegnamenti sull’amore, egli usa l’immagine di una montagna per illustrare il quarto fondamento del vero amore: equanimità o upeksha. Upa vuol dire “al di là” e iksh “vedere”. Puoi scalare la montagna per essere in grando di avere una visione più ampia, senza essere legato ad una parte o all’altra. Se il tuo amore è legato al possesso, alla discriminazione, al pregiudizio, non è vero amore. Da quando ha dovuto lasciare il Vietnam nel 1972, come rifugiato politico che aveva manifestato contro la guerra (la Cia pensava che fosse un comunista, i Vietcong che fosse della Cia), Thây ha scritto più di 75 libri. 
E’ meglio conosciuto per aver portato la meditazione fuori dagli isolati monasteri buddhisti nascosti nelle montagne, per raggiungere le vite dei cittadini occidentali. Tuttavia, il buddhismo che lo interessa maggiormente è quello che lui chiama “Il Dharma vivente”. Questo è, come lo definisce lui, il Dharma che non ha bisogno di parole. “Quando pratichi la respirazione cosciente”, dice, “stai generando il Dharma vivente, il Dharma che non ha bisogno di parole. Quando pratichi la coscienza del respiro o del camminare, diventi tu stesso il Dharma vivente”. In questo modo, secondo Thây, i veri maestri di Dharma non insegnano con la bocca, ma col il loro corpo, il loro respiro, il loro modo di camminare. “Il Dharma vivente” egli aggiunge, “non è qualcosa di astratto. E’ reale e disponibile. Puoi averlo quando vuoi, ventiquattr’ore al giorno!”. Egli continua spiegando che le montagne sono templi del Dharma vivente.
Questo è, come lo definisce lui, il Dharma che non ha bisogno di parole. «Quando pratichi la respirazione cosciente»,  dice, «stai generando il Dharma vivente, il Dharma che non ha bisogno di parole. Quando pratichi la coscienza del respiro o del camminare, diventi tu stesso un Dharma vivente». In questo modo, secondo Thay, i veri maestri di Dharma non insegnano con la bocca, ma col il loro corpo, il respiro, il modo di camminare.  «Il Dharma vivente»  egli aggiunge,  «non è qualcosa di astratto. È reale e disponibile. Puoi averlo quando vuoi, ventiquattr’ore al giorno!».  E per lui le montagne sono templi del Dharma vivente. 
Qualche tempo fa ho incontrato Thay e Sister Chang Khong, sua collega da molti anni, presso il Deer Park Monastery, centro di pratica vicino a San Diego. Si era appena concluso un lungo ritiro invernale ed entrambi erano esausti, ma nonostante ciò mi invitarono a inerpicarmi per la montagna su cui sorge il centro. «Scalare la montagna non ci stanca» spiegò Thay. «Anzi, ci rinvigorisce!» aggiunse Sister Chang Khong. Così mi unii a loro, e nonostante entrambi avessero almeno vent’anni più di me, mi meravigliai per l’energia con la quale si arrampicavano su quelle rocce frastagliate. Thay si muoveva lentamente ma con determinazione, scegliendo con cura dove mettere i piedi, mentre io mi affrettavo per mantenere la loro andatura. Quando alla fine raggiungemmo la vetta, ansimavo, mentre Thay sorrideva tranquillamente.
«Siamo sulla sommità di un fior di loto – annunciò felicemente – con mille petali di roccia». Thay aggiunse che era contento che nessun buddhista «ufficiale» potesse raggiungerlo lassù su quella montagna e che almeno per qualche minuto nessuna associazione buddhista di Vip, così come nessun membro del suo stesso ordine nella tradizionale casacca marrone, avrebbe interrotto quel profondo senso di fusione che stava vivendo con la montagna. Avevo l’impressione che il bellissimo tempio costruito più sotto fosse solo un’esca e che in realtà il vero tempio era qui, in cima alla montagna.
Thay rifletteva sulle sfide insite nell’essere una guida spirituale. «La tentazione di usare l’abito monacale come segno d’importanza, il rischio di lasciare che esso rafforzi l’ego, sono sempre presenti. La soluzione sta nell’evitare il conflitto con la via dell’autocoscienza». «I falsi insegnanti – disse – si possono riconoscere abbastanza facilmente. Non vedi alcuna gioia… la felicità che deriva dalla pratica è assente dai loro volti».
Il largo sorriso di Thay era contagioso, la sua felicità era evidente. Mi parlò di Chia Tao, un monaco zen che diventò poeta durante la dinastia cinese di T’ang (777-841), e che nelle sue poesie immortalava le vite di saggi, maestri ed eremiti, dai quali nacque la grande tradizione spirituale del Buddhismo Zen in Cina. Una poesia molto amata da Thay si chiama «Cercare un eremita senza trovarlo». E recita così:
Chiesi a un ragazzo sotto gli alberi di pino: «Dov’è il tuo maestro?
«Il mio maestro è andato a raccogliere erbe» rispose.
«È ancora da qualche parte sulla montagna, così immerso nelle nuvole, che non ti posso dire dove».
Dopo queste riflessioni, ci siamo seduti in silenzio, contemplando gli uccelli e la brezza, con in sottofondo il rumore sommesso del traffico giù nella valle. Il sole tramontava, e illuminava il volto di Thay. In quel momento mi vennero in mente alcuni versi di una poesia di Li Po (701-762), un altro grande poeta cinese della dinastia T’ang: Ci sediamo insieme, la montagna ed io, finché solo la montagna rimane.
Articolo tratto da  Terra Nuova – Aprile 2005 
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