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Un altro modo di degustare il vino

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Intervista a Fabio Pracchia, giornalista e sommelier, esperto di storie e paesaggi del vino.
Fabio Pracchia, giornalista e sommelier, fa parte della redazione di Slow Wine, di cui è uno dei principali collaboratori, e scrive per la rivista Cook_Inc. Prima di diventare narratore di storie e paesaggi del vino ha avuto una lunga esperienza in vigna alla Tenuta di Valgiano sulle colline lucchesi. Un tempo abbastanza lungo per capire, così dice lui, che quello non era il suo mestiere.
Fabio considera il vino come una lente con cui osservare il mondo e gli uomini. È autore del libro I sapori del vino. Percorsi di degustazione per palati indipendenti (Slow Food Editore), una sorta di manifesto per un nuovo modo di pensare il vino che sta riscuotendo un buon successo editoriale.
Il vino naturale sembra essere sulla cresta dell’onda. Cosa è cambiato negli ultimi anni nel mondo della viticoltura e dei gusti? C’è stata un’evoluzione?
Gran parte dei vini degli anni Novanta è il frutto di un’omologazione enologica, tutta sbilanciata verso la dolcezza e la concentrazione, che ha causato un appiattimento in termini di complessità gustativa e differenze territoriali. Ma in quegli stessi anni ci si è proposti di tornare all’agricoltura sostenibile. Un movimento nato in Francia, che si è sviluppato soprattutto in Borgogna, e poi si è propagato in Italia dagli anni ’90, a cominciare dal Piemonte. Nel tempo è cresciuta una nuova generazione di produttori che ha avuto la possibilità di stare in contatto con questo tipo di cultura. Parallelamente è cambiata la consapevolezza da parte dei cittadini, per un maggior rispetto dell’ambiente e dei territori.
Come vedi lo sviluppo del settore in Italia?
Il mercato in questi anni si è mostrato assetato di viti naturali, una grande sperimentazione che ancora non ha trovato forma e definizione. Noi abbiamo una ricchezza di vitigni autoctoni indescrivibile e questa è una grande forza, che richiede tanto impegno. Per nostra fortuna ci sono giovani produttori che hanno scelto la viticoltura in zone meno note e impervie, come le aree appenniniche, che fino a pochi anni fa erano impensabili per la produzione vinicola, perché non avrebbero dato sufficiente reddito. Ormai siamo oltre il ragionamento di nicchia, c’è una cultura che sta cambiando anche nel mondo del vino.
Per apprezzare i vini naturali è necessario cambiare il nostro modo di assaggiare?
I tratti distintivi del sapore sono abbastanza complessi.
Io suggerisco di introiettare il vino prima ancora di analizzarlo in modo scolastico attraverso colore, profumo e gusto, così come viene comunemente insegnato. Nella degustazione classica si procede dall’esame visivo a quello olfattivo e infine al gusto-olfattivo. Si tratta di una riduzione, con diversi momenti di valutazione, scomposti in varie parti distinte. C’è molto tecnicismo.
Io sono per un approccio più organico, come esperienza totale e simultanea. La degustazione così concepita, oramai superata, ma che ancora domina sul web, è stata posta al servizio di un vino concepito come prestazione piuttosto che come espressione geografica, culturale e umana. Il tratto più importante nella viticoltura sostenibile è quello di avere una dinamica gustativa leggiadra, al di là del singolo esame separato.
Il vino, insomma, va bevuto, e non solo assaggiato… e poi sputato come fanno i sommelier. C’è un motivo, diciamo scientifico, che giustifica questa tecnica?
Esattamente. Per chi beve vino è più facile arrivare vicino al nucleo originale del sapore, perché si spinge laddove chi sputa non può arrivare. La fase retro-olfattiva, quando il vino è dentro di noi, è più complessa. Analizzare il vino solo nella prima olfazione è interessante sul piano narrativo, ma non ci dà i segnali di una qualità assoluta.
I vini ottenuti senza impiego di chimica ci restituiscono in massima misura il talento del vignaiolo che, grazie all’elemento del terroir, riesce a produrre in cantina vini legati in modo stretto all’annata di provenienza.
Dobbiamo rinunciare a qualcosa nella degustazione dei vini naturali?
Io individuo il gusto del vino nella capacità di scorrere nel palato per soddisfare l’esigenza di nutrimento. Poi viene l’analisi olfattiva celebrata dai sommelier: saprà di ciliegia, cuoio, prugna, amarena. Una bella esperienza quella olfattiva, certo, ma serve a descrivere e raccontare il vino in una fase che non è quella essenziale. Credo tuttavia che la narrazione non sia semplice dispersione, può sicuramente regalare piaceri immensi e aiutare la comprensione di chi si avvicina al mondo del vino. Sono convinto che si possa conciliare questo aspetto originario con l’aspetto edonistico intellettuale di narrazione.
Luigi Veronelli diceva che il peggior vino contadino è migliore del miglior vino industriale. Il vino torna a essere considerato un alimento?
Come smentire Veronelli! Attorno al vino abbiamo costruito storie e narrazioni importanti, categoria estetica e intellettuale di grande fascino, però non possiamo non pensare che il vino sia essenzialmente un alimento. Così è stato in Italia fino agli anni ’80. Luigi Veronelli con i suoi scritti ha cominciato a raccontare le facce che stanno dietro al bicchiere. È una storia legata profondamente alla tradizione agricola italiana fondante per questo paese. I nostri nonni sapevano bere il vino con lo stomaco, apprezzavano la schiettezza. Poi ci siamo specializzati in corsi di cucina e sommelier, e i primi detentori di sapere sono diventati tecnici che hanno costruito sovrastrutture.
Oggi c’è più consapevolezza. Il mondo del vino ha sviluppato il concetto del terroir che forse potremmo estendere a tanti altri prodotti agricoli, non credi?
Il movimento dei vignaioli rispettosi del suolo e poco interventisti in cantina ha indubbiamente avuto successo.
In questo periodo storico abbiamo la fortuna di avere imprenditori con competenze tecniche. Prima l’agricoltura era intrapresa da puri imprenditori e svolta da consulenti. Oggi riusciamo ad avere all’unisono giovani tecnici e imprenditori che possono investire e dare futuro alla nostra viticoltura e ai nostri paesaggi. È chiaro che dobbiamo abbracciare la diversità come valore, perché una malinterpretata scuola di pensiero ha tolto l’anima al cibo e all’agricoltura. Dobbiamo affidarci a persone che comprendono le relazioni misteriose tra grappolo, fotosintesi e suolo.
Nella fermentazione spontanea avvengono processi misteriosi, ma si producono vini più veri, non è così?
Ho dovuto acuire la percezione per comprendere la differenza tra fermentazione spontanea e aggiunta di lieviti selezionati. Siamo in ritardo sui tempi esecutivi dei bravi agricoltori. Non sono un enologo, ma mi rendo conto che bisogna avere competenza e capacità tecnica per sapere quando farne a meno e produrre grandi vini. Significa non solo risparmiare sui sacchetti di lieviti selezionati, ma diventare più confidenti con i fenomeni caotici della fermentazione spontanea, essere in grado di controllare, il che non significa avere strumenti chimici di avanguardia.
Il bicchiere può davvero raccontare la natura di un territorio?
Per avere una migliore percezione delle varie sfumature, legate all’origine geologica, è necessaria la conoscenza dei luoghi. Quando uno si innamora di un vino si innamora anche della geografia, dei microclimi e delle strutture del suolo. Per comprendere questo complesso intreccio tra territori e pratiche agricole è necessario tornare a camminare nelle vigne e incontrare i vignaioli.
Credi che la viticoltura possa cambiare il suo approccio per amore dell’ambiente?
Oggi c’è molta più consapevolezza, maturata soprattutto in quei territori vinicoli che sono oggi sottoposti a climi estremi, come la California o l’Australia. C’è la volontà di pesare meno sull’ambiente, di sfruttare meno il suolo, una volontà di prendere solo quello che possiamo ridare. In Italia si può ben sperare. Oggi ci sono aziende con più di cento ettari vitati con la biodinamica, la riprova che qualcosa sta cambiando davvero.
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Dicembre 2018

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