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Viticoltura biodinamica: concretezza e visione

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Abbiamo intervistato Adriano Zago, agronomo ed enologo, consulente in agricoltura biodinamica di prestigiose realtà produttive nel mondo e collaboratore come docente e conferenziere di diversi centri di divulgazione, istituti di ricerca e università.
Il Bioreport 2018 ci parla di un forte incremento della viticoltura biodinamica. Una nicchia che cresce e crea nuove opportunità di lavoro. Come interpreti questi risultati?
Ci sono diverse centinaia di aziende che usano la biodinamica per fare vino in Italia. Negli ultimi quindici anni la situazione è cambiata: la biodinamica oggi non è piu vista come tecnica e visione adatta a piccole aziende romantiche e poco professionali, ma è diventata un’alternativa produttiva per aziende grandi che prima venivano considerate inadatte. Lavoriamo con dimensioni e profili di azienda che prima erano impensabili. Si tratta di realtà che credono in quello che fanno, che esportano all’estero. Questo non vuol dire che bisogna lavorare solo con i grandi, ma è una conferma che dà nuova fiducia nel metodo.
Parli di centinaia di aziende, ma quelle certificate Demeter sono una cinquantina, come si spiega?
Molti produttori di vino naturale utilizzano la biodinamica senza nemmeno certificarsi in biologico.
Circa il 10% dei biodinamici sono certificati Demeter. La realtà è che il vino in molti casi ha la possibilità di raccontarsi da solo…
Perché sempre più viticoltori si rivolgono alla biodinamica?
I produttori ci ritrovano strumenti di lavoro per la viticoltura e l’enologia. C’è dietro una visione che punta alla qualità e che risponde all’esigenza di una tipicizzazione estrema che, oggi, al contrario di quanto avveniva in passato, viene ricompensata dal mercato. Si va contro la standardizzazione del vino industriale, e ogni annata permette di apprezzare risultati diversi.
Ci sono dei vantaggi evidenti che si riscontrano già nella vigna?
I risultati sono tangibili, si impara a lavorare con la propria sostanza organica, a sviluppare grappoli che sono unici. Mettendo insieme le migliori pratiche agronomiche si lavora sulla longevità, con un notevole risparmio di denaro ed energie. Una vite può campare per più di cent’anni.
Certo, se la potiamo male, se non ci prendiamo cura del suolo, dopo un po’ le piante cominciano a indebolirsi e la natura ci presenta il conto. Nelle vigne si sono accumulati un sacco di problemi dovuti a distrazioni colturali e culturali.
Qual è la sfida in cantina? Si possono utilizzare lieviti selezionati o si preferisce fare senza?
Intanto è importante avere uve sane, dando per scontato che non si usano pesticidi e ulteriori additivi. Lo sforzo è quello di riuscire a raccontare l’unicità dell’uva e del territorio. Nel disciplinare Demeter si possono usare lieviti selezionati, ma la grande maggioranza dei produttori ne fa a meno. I lieviti non costituiscono un problema per la salute, ma rischi semplicemente di «falsificare» buona parte del racconto.
Uno degli argomenti più dibattuti riguarda l’uso dei solfiti, qual è la tua posizione?
C’è un grande falso storico da smentire. Le persone sono state indotte a pensare che i solfiti possano causare problemi di vario genere, ma tutto sta nella misura.
È vero, si utilizzano anche nel biologico e nel biodinamico. Noi in realtà ne usiamo in misura di un quarto rispetto alle soglie del convenzionale. Il problema è che quest’ultimo può usare liberamente diverse decine di additivi. Per non parlare di quello che accade in vigna, dove ci sono quasi sessanta fitofarmaci ammessi, mentre noi usiamo solo cinque o sei prodotti, con una soglia di pericolosità bassissima.
Tra questi c’è il rame, sul cui utilizzo l’Unione europea ha posto dei limiti più stringenti…
Mi viene da ridere quando un agronomo convenzionale vuole metterci all’angolo parlando di rame. In realtà noi ne usiamo ben poco, circa 2/3 kg a ettaro, quindi anche il limite dei 4 kg/ha non ci impensierisce. Poi bisognerebbe indagare meglio sulla sua persistenza nei vari terreni e sulla capacità delle piante di assorbirla.
Sì, ma come la mettiamo con le malattie più frequenti della vite, come la peronospera?
Negli ultimi decenni abbiamo intensificato la densità di piantazione, indebolendo le piante, cambiando le varietà a piacimento. Le malattie sono normali. Si possono combattere con i fitofarmaci ma anche con pratiche agronomiche capaci di portare in equilibrio la piante.
La scienza in questo ci aiuta: se sappiamo come funziona la pianta, riusciamo a utilizzare il rame solo quando e quanto serve.
Una delle tue passioni è il vino conservato in anfora. Ce ne vuoi parlare?
L’anfora è un’interprete che non «marca» la fermentazione, che ti permette di portare un’uva in bottiglia.
È uno strumento interessante, ma non certo una visione ideologica nella quale arroccarsi. In Italia c’è una tradizione delle anfore in terracotta che possono avere da 300 fino a 1000 litri di capienza. Si tratta di un contenitore come tanti altri, come legno, acciaio e cemento. Ma ha la peculiarità di garantire una maggiore neutralità dal punto di vista organolettico; ad esempio, non porta i tannini del legno. Ha una traspirazione che è leggermente superiore a quella del legno, lo scambio di ossigeno dà luogo a un’azione chimico fisica peculiare, mentre la forma ovale permette ai lieviti fini presenti nel vino di essere sempre in movimento. Quando le fecce stanno in movimento, i vini diventano più rotondi.
Aggiungo che sono fatte da artigiani che usano terra, acqua e fuoco. Io lavoro con anfore italiane per offrire qualcosa di altisonante, mettere insieme artigiani e viticoltori. In Italia ci sono circa un centinaio di aziende che fanno almeno un vino in anfora. A fine novembre, all’Impruneta, si tiene l’unica manifestazione al mondo dedicata esclusivamente ai vini in anfora, con circa quaranta produttori internazionali.
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Intervista tratta dall’articolo Vino naturale: basta che sia bio?

Leggi l’articolo completo sul mensile Terra Nuova Dicembre 2018
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