Alvise Bragadin oggi a 44 anni e, dopo esperienze di wwoofing e in giro per il mondo, da tre anni coltiva uno degli orti sociali avuti nel Trevigiano, dove risiede. Il reddito gli arriva dal suo lavoro di impiegato tecnico per una società di progettazione ma la sua anima e il suocorpo si nutrono lì, nel suo orto. In cui Alvise ci accompagna virtualmente…
«Sono trascorsi tre anni dal primo giorno in cui ho messo piede in orto – spiega
Alvise Bragadin – Fatta la domanda per accedere agli orti sociali a breve è arrivata la risposta: presentarsi il tal giorno presso l’orto n°15. Improvvisandomi contadino, sono arrivato sul campo con poca esperienza e con attrezzi ereditati: un paio credo siano stati presi in prestito da qualche parete di una taverna. In piedi, con lo sguardo perso che sorvolava la terra squarciata da solchi, avevo una sola domanda: e adesso?! mi sudavano le mani e non era perchè c’era una bellissima calda giornata di maggio».
Si rimbocca le maniche e inizia: «Cappello in testa e vanga tra le mani ho cominciato ad accanirmi sulla terra mai lavorata. All’inizio mi pareva di affondare l’attrezzo su un piazzale asfaltato: era così dura che dopo mezz’ora non avevo ancora finito i primi sette metri (50 mq totali); a mezzogiorno non avevo ancora finito metà dell’orto ed ero già completamente svuotato, con le mani piene di bolle scoppiate da renderle appiccicose. Procedendo verso la macchina, camminavo come mio zio Antonio da poco operato all’anca!».
«La pausa pranzo è stata fondamentale per riordinare le idee, organizzarmi e ripartire con nuova energia e una buona dose di caffeina nel sangue – racconta Alvise – Prima del buio, avevo vangato tutto l’orto ma non avevo trapiantato ancora nessuna delle piantine comperate in vivaio: rimanevano lì nelle loro vaschette a guardarmi perplesse. Giusto il tempo di voltarmi a guardare il tramonto che rendeva tutto così speciale, provai un grande senso di soddisfazione; raccolti gli attrezzi e le piantine, sono rientrato a casa per svenire comodamente sul pianerottolo: a quel punto non faceva nessuna differenza. L’indomani mattina, dopo un po’ di stretching sono ritornato in orto per trapiantare le piantine: pomodori, cetrioli, zucchine, zucche, cipolle tropea, insalate, porro e meloni. A fine giornata una signora vicina di orto mi ha regalato una timida piantina di more senza spine e subito l’ho messa in un angolo. I giorni che seguirono, sono stati più semplici: rompere la terra attorno alle piante, impiantare e legare i pomodori man mano che crescevano e ovviamente dare da bere».
«È il terzo anno che vivo l’esperienza orticola, che condivido con altri “ortisti per caso” questa meravigliosa esperienza di riscatto – spiega Alvise – mangiare ciò che si ha impiantato, difeso, curato. Con molti non c’è stato modo di presentarsi e conoscersi subito ma alcune settimane dopo mi sono state chiare alcune professioni… . Tensostrutture in legno e corda per accogliere e incoraggiare l’arrampicata dei legumi; coperture alla Renzo Piano per proteggere dalla grandine meloni e melanzane. Tra una zappata e un giro di annaffiatoio ci si scambiano consigli: alcuni dati dall’esperienza sul campo e altri riciclati e contraddittori; ma più semplicemente leggère chiacchiere da bar che rendono l’aggregazione più forte e vivace. In tutto questo tempo, silenziosa e paziente, la pianta fa ciò per quello che è nata: generare frutto. Rimango affascinato dal suo virtuosismo: generare fiori per sedurre gli insetti pronubi; ma anche l’aspetto superbo come quello della gramigna: come un serpente silenzioso si fa strada sotto la superficie e sbuca affianco alla pianta che sto coltivando».
«L’aspetto più emozionante di questa esperienza sta nello spuntare silenzioso dell’ortaggio: accorgermi di lui il giorno dopo! Sembra quasi che timidamente aspetti il silenzio e il buio per sbucare! Senza saperlo, imparo a comunicare e a prendermi cura di me: attenzioni premurose verso questa parte di Natura che chiede un certo impegno e costanza ma che da molto. Un altro tramonto: la temperatura è più accettabile; i colori sfumano e qualsiasi cosa io mi metta a guardare, acquista il suo fascino; cammino tra i corridoi delle prode e do da bere alle giovani piantine: decine e decine di creature che sanno di essere e già che vogliono fare… . C’è molta soddisfazione nel vedere quello che ho realizzato con le mie mani: per un attimo lo confronto con il mio lavoro d’ufficio: sempre più astratto, sempre più veloce e così lontano dai ritmi della Natura che mi insegna invece ad avere pazienza. Raccolgo gli attrezzi e li sistemo dentro la casetta di legno; mi dirigo verso la bicicletta; mi fermo, mi volto un’ultima volta; mi siedo e incomincio a spingere sui pedali… . A domani!».
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