L’esperienza di Pietro Luciano Venezia, veterinario omeopata, esperto permacultore e attivo da trent’anni nella cooperazione internazionale: «Di fronte ai problemi che affliggono animali, suolo o persone, occorre ripensare e riprogettare i sistemi malati».
Prima in Guatemala, poi in Senegal e in Gambia: Pietro Luciano Venezia, con la collaborazione di un team con competenze trasversali e sinergiche, ha portato e applicato in questi ultimi anni la progettazione in permacultura in Centro America e in Africa.
Veterinario omeopata, co-autore del libro ”
Vite connesse. L’approccio sistemico nella relazione col cane” (Terra Nuova Edizioni), attivo nella cooperazione internazionale da trent’anni e cofondatore dell’associazione
Armonie Animali, è riuscito a far comprendere, con la formazione ma soprattutto con i risultati concreti ottenuti, che «la permacultura è una risorsa ineguagliabile come sistema di progettazione di ecosistemi che rispettano l’uomo, gli animali e l’ambiente dove essi vivono in relazione» spiega.
«A motivarmi è stata la volontà di andare oltre il concetto semplicistico di malattia, così come la insegnano all’università, perché in una grandissima maggioranza di casi quando c’è un problema, esso è conseguenza patologica di un sistema esso stesso patologicamente degradato e quel disagio, a ben guardare, colpisce spesso sia gli animali, sia l’uomo, sia il suolo o l’ambiente circostante».
L’esperienza in Guatemala
«Ho mosso i primi passi nella comprensione della permacultura vivendo per cinque anni con le popolazioni dell’etnia Maya Ixil» spiega Pietro. «Ero partito con Veterinari Senza Frontiere Francia e sono rimasto là dal 1991 al 1996. Ho avuto la fortuna di incontrare l’agronomo francese Benoit Maria, con cui ho lavorato e vissuto nella stessa casa. Là ho capito molto bene che, mentre la veterinaria convenzionale si concentra solo sulla malattia dell’animale limitando quindi la sua visione e la sua capacità di intervento, la permacultura invece permette di valutare i sistemi entro cui l’animale è inserito e vive, facendo comprendere come quel problema patologico sia segnale di un degrado che coinvolge un intero contesto, che quindi va riorganizzato e riformulato. La zona del Guatemala dove ho lavorato aveva subìto una vasta deforestazione, capre e pecore avevano generato un problema di sovrapascolo che danneggiava il suolo, l’assenza di vegetazione avevano indurito il terreno che quindi non lasciava percolare in falda l’acqua delle piogge, che scorreva via senza nemmeno essere assorbita superficialmente. Tutte queste condizioni si sommavano al fatto che, per esempio, i bambini venivano destinati alla custodia degli animali al pascolo perché non c’era cibo da fornire loro altrimenti e quei piccoli non riuscivano ad andare a scuola, quindi non imparavano né a leggere né a scrivere, cosa che li tagliava fuori persino dalla possibilità di cavarsela con un documento o un libro».
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