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Diremo addio al grano italiano?

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Le speculazioni sul grano affossano l’Italia agricola. Prezzi stracciati che costringono gli agricoltori a lavorare sotto costo. Il made in Italy diventa un’immagine di facciata che nasconde una realtà fatta di sfruttamento e materie prime di scarsa qualità acquistate a buon prezzo dall’estero
Il grano è cultura, tradizione, sussistenza e sovranità alimentare. Ma il grano nella storia è stato sempre il sinonimo di denaro, unità di scambio e di ricchezza. Oggi il grano è una commodity, oggetto di  speculazione finanziaria sulle materie prime alimentari, che destabilizza l’economia di interi Paesi e continenti. Il grano è trattato al pari di una merce qualunque, prodotta a basso costo in paesi lontani.
La stessa partita di grano viene acquistata, venduta, ricomprata più volte in una solo giornata e, prima ancora di essere prodotta. Il prezzo non lo decide il coltivatore, né l’acquirente e tantomeno il consumatore finale. Il prezzo lo decide un accozzaglia di sciacalli che gestiscono il mercato mondiale.
Nel mondo è aumentata la produzione, con paesi sempre più competitivi, che grazie all’agricoltura meccanizzata e ai bassi salari, riescono a imporre prezzi stracciati. Una politica che si ripercuote sui nostri agricoltori, che, nel settore cerealicolo, lavorano ormai sottocosto da anni. I valori di questi giorni sono imbarazzanti: frumento duro viene pagato dai 18 ai 20 centesimi al chilo, mentre quello tenero per il pane è sceso addirittura ai 16 centesimi al chilo, su valori al di sotto dei costi di produzione che mettono a rischio il futuro del granaio Italia.
Su queste premesse il made in Italy diventa un’immagine di facciata che nasconde una realtà fatta di sfruttamento e materie prime di scarsa qualità acquistate a buon prezzo dall’estero. L’Italia nel mercato globale non può competere sul piano dei costi con l’Europa dell’Est, la Cina o il Sud America. Ma nemmeno con la forza organizzativa di Francia e Germania. E così nel 2015 abbiamo importato circa 4,3 milioni di tonnellate di frumento tenero mentre sono 2,3 milioni di tonnellate di grano duro per la nostra pasta.
Coldiretti parla di deflazione con effetti devastanti nelle campagne. Le quotazioni sarebbero crollate rispetto al 2015 del 42% per il grano duro. Le speculazioni sul commercio delle materie prime agricole – precisa la Coldiretti – hanno provocato il crollo dei prezzi del grano su livelli di 30 anni fa e mettono a rischio il futuro della coltivazione in Italia. Oggi gli agricoltori devono vendere 5 chili di grano per permettersi un caffè ma ne servono ben 15 chili per acquistare una pagnotta di pane da un chilo con un ricarico del 1450%.
Pensare ad una politica agricola nazionale, come ai tempi della battaglia del grano, oggi sembra contrario alle leggi di mercato e alla politica comunitaria. Un’idea che in realtà è smentita dall’importanza che in modo sottaciuto, l’agricoltura cerealicola ricopre nei Paesi più ricchi, primo tra tutti gli Stati Uniti, che oltre alle riserve petrolifere e all’arsenale militare hanno una produzione di frumento quasi autosufficiente.
In Italia la produzione di frumento tenero si attesta ormai stabilmente su livelli compresi tra 3,0 e 3,8 milioni di tonnellate, un quantitativo largamente insufficiente a coprire le esigenze quantitative del sistema molitorio italiano che si collocano attorno a 5,5 milioni di tonnellate all’anno. Le importazioni di grano tenero in Italia ammontano addirittura al 75% del totale. A rischio non c’è solo la produzione di grano ed il futuro di oltre trecentomila aziende agricole che lo coltivano ma anche un territorio di 2 milioni di circa ettari a rischio desertificazione. Una grave dipendenza del sistema industriale dall’estero che mina alla base anche la fiducia dei consumatori verso i nostri prodotti nazionali.
Coldiretti insiste sull’importanza di coinvolgere i consumatori in un percorso di trasparenza, come l’etichettatura di origine obbligatoria e la tracciabilità delle produzioni. Il paradosso è non sono state mai apportate riduzioni di prezzi al consumo di pane e pasta che pure potevano essere fisiologiche nel periodo nel quale veniva ridotto il costo della materia prima.
Rievocare la battaglia del grano fascista ha poco senso, ma interrogarsi sul futuro agricolo del paese è diventato un obbligo morale. L’Italia è un paese ricco. Ricco di paesaggi, di culture, di tradizioni. Un paese in cui i segni della storia sono ancora evidenti, lasciando tracce indelebili nei territori più vulnerabili: le campagne.
La guerra, il fascismo, la seconda industrializzazione, la crescita del terziario, la globalizzazione, la crisi dell’agricoltura, l’urbanizzazione, il consumo di suolo, la crisi economica, hanno trasformato e in parte sfigurato l’aspetto del nostro territorio. Sono cambiate le varietà coltivate, le tecniche colturali, ma prima ancora è cambiata la cultura contadina, con un processo di omologazione che ha espropriato le campagne e i contadini dei propri saperi e della propria autonomia. In questo senso tornare a coltivare vecchie varietà di grano non è un’operazione di restauro o un richiamo romantico a un passato mitologico. Significa riuscire ad attivare nuove filiere di produzione, che oggi è una sfida e un atto di resistenza importante. Significa tornare a fare ricerca. A produrre qualità.

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