Diremo addio al grano italiano?
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La stessa partita di grano viene acquistata, venduta, ricomprata più volte in una solo giornata e, prima ancora di essere prodotta. Il prezzo non lo decide il coltivatore, né l’acquirente e tantomeno il consumatore finale. Il prezzo lo decide un accozzaglia di sciacalli che gestiscono il mercato mondiale.
Su queste premesse il made in Italy diventa un’immagine di facciata che nasconde una realtà fatta di sfruttamento e materie prime di scarsa qualità acquistate a buon prezzo dall’estero. L’Italia nel mercato globale non può competere sul piano dei costi con l’Europa dell’Est, la Cina o il Sud America. Ma nemmeno con la forza organizzativa di Francia e Germania. E così nel 2015 abbiamo importato circa 4,3 milioni di tonnellate di frumento tenero mentre sono 2,3 milioni di tonnellate di grano duro per la nostra pasta.
Coldiretti parla di deflazione con effetti devastanti nelle campagne. Le quotazioni sarebbero crollate rispetto al 2015 del 42% per il grano duro. Le speculazioni sul commercio delle materie prime agricole – precisa la Coldiretti – hanno provocato il crollo dei prezzi del grano su livelli di 30 anni fa e mettono a rischio il futuro della coltivazione in Italia. Oggi gli agricoltori devono vendere 5 chili di grano per permettersi un caffè ma ne servono ben 15 chili per acquistare una pagnotta di pane da un chilo con un ricarico del 1450%.
In Italia la produzione di frumento tenero si attesta ormai stabilmente su livelli compresi tra 3,0 e 3,8 milioni di tonnellate, un quantitativo largamente insufficiente a coprire le esigenze quantitative del sistema molitorio italiano che si collocano attorno a 5,5 milioni di tonnellate all’anno. Le importazioni di grano tenero in Italia ammontano addirittura al 75% del totale. A rischio non c’è solo la produzione di grano ed il futuro di oltre trecentomila aziende agricole che lo coltivano ma anche un territorio di 2 milioni di circa ettari a rischio desertificazione. Una grave dipendenza del sistema industriale dall’estero che mina alla base anche la fiducia dei consumatori verso i nostri prodotti nazionali.
Coldiretti insiste sull’importanza di coinvolgere i consumatori in un percorso di trasparenza, come l’etichettatura di origine obbligatoria e la tracciabilità delle produzioni. Il paradosso è non sono state mai apportate riduzioni di prezzi al consumo di pane e pasta che pure potevano essere fisiologiche nel periodo nel quale veniva ridotto il costo della materia prima.
La guerra, il fascismo, la seconda industrializzazione, la crescita del terziario, la globalizzazione, la crisi dell’agricoltura, l’urbanizzazione, il consumo di suolo, la crisi economica, hanno trasformato e in parte sfigurato l’aspetto del nostro territorio. Sono cambiate le varietà coltivate, le tecniche colturali, ma prima ancora è cambiata la cultura contadina, con un processo di omologazione che ha espropriato le campagne e i contadini dei propri saperi e della propria autonomia. In questo senso tornare a coltivare vecchie varietà di grano non è un’operazione di restauro o un richiamo romantico a un passato mitologico. Significa riuscire ad attivare nuove filiere di produzione, che oggi è una sfida e un atto di resistenza importante. Significa tornare a fare ricerca. A produrre qualità.