Ciò che definiamo con il termine agricoltura rappresenta di fatto una forzatura operata sul naturale equilibrio biologico e sull’ecosistema. Basti pensare che il primo gesto agricolo in assoluto è il disboscamento, o comunque la rimozione della naturale copertura vegetale del suolo*.
La modernizzazione dell’agricoltura operata dagli inizi del Novecento ha prodotto notevoli cambiamenti nel tessuto delle campagne con effetti immediati e diretti sulla qualità del cibo e sulle sue caratteristiche, sull’ambiente e sul paesaggio. L’impiego di prodotti chimici e di petrolio, nonché l’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica ha di fatto rivoluzionato l’intero processo produttivo. Tramite il progresso tecnico-scientifico diventa possibile operare modificazioni nell’ambiente al fine di ottenere una maggiore produttività delle superfici coltivate. Il ciclo produttivo viene orientato verso la specializzazione in modo da massimizzare le rese e la produzione con l’obiettivo di incrementare al massimo il profitto. Vengono rimossi tutti gli elementi considerati non produttivi o di impedimento alla produzione come siepi, alberi, arbusti, zone umide ecc. Questi elementi naturali hanno un ruolo ecologico fondamentale, svolgendo una funzione centrale per l’economia della natura, e sono determinanti al fine di ridurre l’impatto operato dall’uomo sull’ambiente attraverso la pratica agricola. Oggi si parla di “servizio” che questi organi (fasce boscate, siepi, inerbimenti, zone umide) svolgono a favore dei processi naturali e della stabilità ecologica di una determinata area, mentre le siepi o le fasce boscate vengono definite infrastrutture ecologiche per via della loro funzione all’interno dell’ecosistema.
L’affermazione di un sistema produttivo razionale e uniforme ha di fatto prodotto anche una semplificazione del paesaggio con ricadute negative sulla biodiversità e sugli equilibri ambientali. La necessità di meccanizzare e semplificare le attività produttive in agricoltura, con l’unico obiettivo di incrementare le rese, determina conseguenze non sempre positive sui naturali cicli biologici e vitali. Cicli che sono alla base della vita stessa da milioni di anni. Vengono meno determinati ambienti e contesti in grado di ospitare e sostenere varie forme di vita vegetale, animale e microbica (ognuna con la propria funzione). Tramite la specializzazione ci si dimentica di assecondare il processo naturale riducendo anche di molto la biodiversità, arrivando poi a banalizzare il paesaggio e l’intero contesto agricolo. Mentre non va dimenticato che alla base dei sistemi viventi vi sono proprio complessità e diversificazione, e che questa complessità determina equilibrio e capacità di resistere a stress e avversità senza subire danni o alterazioni sfavorevoli (resilienza). A tal proposito Rudolf Steiner si espresse molto chiaramente già nel 1924 per quanto riguarda il dare e avere nei confronti della natura: “…si ottiene veramente molto per l’agricoltura ripartendo in modo giusto bosco, piantagioni frutticole, arbusti e stagni con la loro naturale ricchezza di funghi, anche se si debba per questo ridurre un poco l’area complessiva del terreno messo a coltura. In ogni caso non è affatto economico sfruttare il terreno al punto che scompaia tutto quanto ho nominato, con il pretesto puramente speculativo di una maggiore superficie coltivabile. Quel che vi si può coltivare in più è dannoso in misura molto maggiore di quello che può dare la superficie tolta alle altre attività. In un esercizio tanto legato alla natura come una fattoria non è possibile trovarsi bene senza vedere in una giusta prospettiva i nessi che mette in opera la natura stessa e le azioni reciproche in seno all’economia naturale…”. Anche in virtù dei recenti cambiamenti climatici.
Possiamo affermare che l’agroecologia nasca proprio nel 1924 grazie al contributo di Rudolf Steiner. Oggi sappiamo che la mancanza di biodiversità comporta un degrado nella funzionalità degli ecosistemi e che per questo risultano fondamentali le interrelazioni che intercorrono tra organismi e ambiente. Queste relazioni comportano notevoli benefici, e grazie ad esse emergono nuove proprietà utili al mantenimento della vita. Dunque questa biodiversità va tutelata e garantita (diversità genetica, diversità di specie e di ecosistemi) poiché diventa funzionale al mantenimento di un equilibrio tra organismi dannosi e utili.
Con la moderna agricoltura industriale, purtroppo, vengono a crearsi forti unilateralità e viene meno anche il numero di specie coltivate, oltre al numero di varietà all’interno di una stessa specie, a favore di poche varietà più produttive. In molti casi ibridi oppure cloni. Oggi solo 30 specie delle 7000 domesticate in 10-12000 anni di storia dell’agricoltura forniscono il 95% della domanda globale di alimenti; più del 75% della biodiversità del Pianeta è andata perduta nel XIX secolo (dati FAO, 2010). Ricordiamo, inoltre, che la concentrazione nello spazio di numerosi organismi uguali o simili crea i presupposti per la proliferazione di malattie o infestazioni, e che il ricorso all’uso di pesticidi di sintesi contribuisce ad accentuare ulteriormente gli squilibri ambientali (oltre al danno diretto ambientale).
Ma l’uniformità diventa la condizione per il “successo” e l’affermazione dell’agricoltura industriale, ed è questa stessa impostazione una delle cause dell’attuale crisi in cui versa la moderna agricoltura (impostazione priva di equilibrio dettata dalle esigenze dell’industria e delle grandi corporazioni economiche).
Ciò che è avvenuto al di sopra del suolo in maniera mirata (con la riduzione delle specie naturalmente presenti) è avvenuto anche all’interno del terreno agrario, nel sottosuolo.
Questa perdita di biodiversità all’interno del suolo è causata dall’uso di fertilizzanti di sintesi, pesticidi, diserbanti, ed è stata determinata anche dalla mancanza di rotazioni appropriate e, non ultimo, dall’uso di macchinari inadeguati e pesanti utilizzati nelle varie operazioni e nelle lavorazioni, anche attraverso l’intensificazione delle arature. Inoltre è venuto meno un adeguato reintegro di sostanza organica (ad esempio tramite humus e sovesci) con conseguenze negative sul processo di umificazione. Tutto ciò ha alterato gli equilibri dell’ecosistema agrario e ne ha generato un impoverimento biologico. In molti casi il terreno agrario è divenuto un ambiente semi-sterile e, di conseguenza, nel contesto agrario si sono create condizioni favorevoli all’espansione di parassiti e malattie sempre più virulente e invasive. Nelle colture idroponiche, poi, abbiamo il massimo grado di antropizzazione e semplificazione del processo produttivo; in questo caso vi è una omologazione estrema (la pianta non è più espressione del territorio ma risponde a standard artificiali assolutamente anonimi). Nelle colture idroponiche le piante vengono portate in una condizione di massima dipendenza dall’uomo, mentre un terreno ben dotato di humus permette alla pianta una maggiore autonomia e autosufficienza. Grazie all’interazione dell’humus vi è una formazione ideale dei tessuti vegetali ed una strutturazione ottimale dell’epidermide, che rappresenta la prima barriera difensiva. Potremmo affermare che una pianta cresciuta in un terreno vitale e ricco di humus sia più “intelligente” rispetto ad una pianta nutrita con fertilizzanti di sintesi.
Per decenni, per poter incrementare le rese, ci si è concentrati su elementi nutritivi di sintesi (N, P, K) dimenticandosi dell’importanza della biodiversità all’interno del suolo e delle sue funzioni fondamentali in quanto organo vero e proprio. E ci si è dimenticati delle relazioni essenziali tra l’apparato radicale delle piante e il suolo. Queste relazioni sono espressione dei cicli biologici e vitali, e sono necessarie per il corretto funzionamento della pianta e lo sviluppo radicale. Se la radice “lavora bene” poi la pianta potrà svilupparsi correttamente per arrivare a produrre cibo sano e di qualità. Per poter lavorare al meglio la radice necessita della complessità e abbondanza di organismi naturalmente presenti nel terreno, sarà dunque compito dell’agricoltore attento garantire questa complessità assecondando il processo naturale.
Un contributo notevole in questa direzione è stato fornito già a suo tempo da Alfonso Draghetti nella sua opera Principi di fisiologia dell’azienda agraria (1948), dove si mette in evidenza che l’azienda biologica rappresenta un’entità vivente dotata di funzionalità autonome la cui vera essenza è la sostanza organica. Nell’agricoltura biodinamica questa sostanza organica deve essere portata al massimo grado di evoluzione (humus), in modo da poter svolgere al meglio e a lungo termine la propria funzione.
Uno degli errori della moderna agronomia industriale è stato quello di considerare la pianta come una unità a se stante, dimenticando le relazioni con i molteplici microrganismi ad essa correlati. Gli equilibri naturali anche qui si basano sulla complessità e sull’abbondanza delle forme viventi (biodiversità).
La moderna agricoltura industriale, al contrario, tende ad una semplificazione e ad una riduzione delle specie privilegiando la singola coltura. Questo modo di procedere genera dei “vuoti biologici” che favoriscono la proliferazione di determinati organismi i quali, poi, possono prendere il sopravvento e diventare parassiti, infestanti, patogeni ecc. Ad una pressione selettiva molto forte corrisponde poi una reazione conseguente.
E, purtroppo, è stata sottovalutata l’importanza delle popolazioni batteriche del terreno: quelle che entrano in simbiosi e associazione con le piante e quelle che partecipano alla degradazione e all’umificazione della sostanza organica.
Con la coltivazione si va ad alterare quell’equilibrio che andrebbe ad instaurarsi naturalmente tra pianta e microrganismi, e tra pianta e ambiente. La moderna agricoltura intensiva ha esercitato una pressione notevole sull’ambiente, determinando la sparizione di innumerevoli specie tra cui molti microrganismi essenziali. Si stima che gli attuali metodi di coltivazione abbiano eliminato più del 90% delle specie microbiche presenti nella rizosfera (in particolar modo micorrize).
Ma è certamente possibile il ripristino di agroecosistemi equilibrati, stabili e ricchi di vita grazie all’agricoltura biodinamica e ad una sua applicazione integrale, per cui è possibile conciliare produttività, ecologia e tutela delle risorse naturali.
Oggi l’agricoltura è divenuta talmente specializzata che in alcune Province della Pianura Padana si rendono necessari incontri tematici per discutere di una singola infestante (divenuta invasiva) in relazione ad una specifica coltura, come nel caso della proliferazione dell’Amaranto all’interno dei campi di Soia, conseguenza delle pressioni selettive determinate dalle pratiche agricole industriali. Queste pratiche intensive hanno aperto la strada allo sviluppo di infestazioni di dimensioni precedentemente sconosciute, sia come intensità che come numero. In pratica si assiste ad una specializzazione di determinati patogeni che è la conseguenza di una impostazione unilaterale e miope della pratica agronomica.
Per garantire la vitalità del terreno, oltre alle buone pratiche agronomiche, occorre adottare anche attrezzature e macchinari realizzati secondo criteri ben definiti. Occorre la giusta meccanizzazione, ed occorre la sensibilità dell’operatore nel gestirla.
Perché è così importante la biodiversità del suolo?
Il tipo di terreno è decisivo nello sviluppo e nella formazione della radice, determinando poi in buona parte quella che è l’architettura della radice. Una parte rilevante di questa architettura è data dai peli radicali. I peli radicali sono estremamente importanti perché permettono un aumento della superficie di contatto della radice con il terreno, e questo è fondamentale perché più una radice riesce ad essere in contatto con il terreno, maggiore sarà la possibilità di poter trovare e assorbire nutrienti e acqua. I peli radicali sono lunghe estroflessioni delle cellule più esterne della radice che ne aumentano notevolmente la funzionalità. Quanto più una radice riesce ad esplorare un terreno, tanto minore sarà il rischio di rimanere senza cibo e acqua. Vi è un dialogo tra radice e terreno che è bidirezionale. La pianta è in grado di trasferire al suo interno ciò che le sta al di fuori (nutrienti, acqua) ma, contemporaneamente, secerne e rilascia sostanze che favoriscono la crescita di determinati organismi (micorrize e altri microrganismi). A suo modo la pianta nutre gli organismi del suolo tramite sostanze prodotte attraverso la fotosintesi. Questa emissione da parte della radice è funzionale ad ottenere poi qualcosa in cambio, oltre a modificare la condizione del terreno intorno all’apparato radicale (ad esempio il pH). In prossimità delle radici aumenta il numero di organismi presenti perché ogni specie vegetale, tramite gli essudati radicali, è in grado di alimentare e mantenere una determinata flora batterica, ed è per questo motivo che risultano estremamente positivi i sovesci plurispecie. Tramite questi viene incrementata la biodiversità ipogea, fattore determinante ai fini della prevenzione di alcune patologie e soprattutto per il mantenimento e la salvaguardia della fertilità (ovviamente un buon compost biodinamico non è da meno).
Occorre dunque favorire queste simbiosi tra radice e microrganismi terricoli poiché vi è un doppio vantaggio: da una parte si favorisce lo sviluppo della pianta e dall’altra vi è la formazione del suolo e la sua strutturazione al meglio. La pianta contribuisce in maniera determinante alla costituzione del terreno dal quale poi riceve sostegno e nutrizione. In questo possiamo affermare che non vi sia un confine netto e delimitato tra radice e suolo, ma che sia un tutt’uno. Anche qui Steiner si espresse molto chiaramente in merito alla questione della concimazione: “Dico questo per suscitare l’immagine dell’intima affinità esistente fra quanto è racchiuso nei limiti di una pianta e il terreno che la circonda. Non è vero che la vita della pianta si esaurisca nei limiti e nella zona periferica della pianta stessa. La vita della pianta come tale continua dalle radici fin dentro la terra, e per molte piante non esiste neppure un limite ben definito fra la loro vita e quella della zona circostante in cui esse vivono. Bisogna compenetrarsi profondamente di questo fatto per comprendere davvero che cosa sia la terra concimata o lavorata in un modo adeguato.”
Sempre Steiner poi cita il fatto che vi siano correnti di forze per ogni organismo che vanno dall’interno verso l’esterno e viceversa. Questo scambio viene intensificato dal complesso di organismi che popolano il suolo; questa biomassa vivente rappresenta il prolungamento dell’apparato radicale (o il non limite della radice) e opera in sinergia con le piante per l’evoluzione e la costruzione del suolo sostenendosi a vicenda. Per decenni la moderna scienza agraria non ha tenuto conto di questi elementi e, per quanto riguarda la concimazione, si è concentrata esclusivamente sulla pianta (o sui presunti bisogni della pianta) secondo una visione statica e puntiforme. Anche per questo motivo oggi molti terreni sono degradati, impoveriti e soggetti a rischio desertificazione (confrontare anche i dati ISPRA sulla desertificazione in Italia, oppure i dati CNR).
Le micorrize e altri microrganismi terricoli che vivono in simbiosi con l’apparato radicale garantiscono anche protezione dall’attacco di alcuni patogeni radicali. Questo dialogo e questo scambio positivo tra radice e terreno è stimolato dal preparato 500 (anche tramite bagno radice e bagno semente), il quale favorisce il ripristino di una biodiversità ottimale all’interno del terreno, garantendo una ideale pluralità di forme che è in antitesi all’omologazione operata dall’agricoltura industriale.
Una radice ben strutturata permette alla pianta di incrementare le autodifese e di resistere meglio a vari tipi di stress; se invece la radice funziona male poi le cose non vanno per il verso giusto. Sono emblematici ancora una volta i dati della ricerca FiBL (DOC) nei quali è emersa la maggiore biodiversità presente nei terreni biodinamici rispetto ad altre metodiche di coltivazione. Un terreno sano, oltre a contenere una buona percentuale di humus, dispone di una notevole molteplicità di microrganismi, funghi e lieviti. Questa molteplicità facilita e stimola il lavoro delle radici in modo che vi sia un assorbimento di sostanze nutritive variegate ed eterogenee. Più sono variegati gli elementi nutritivi con cui si nutre una pianta e maggiore sarà il sapore, l’aroma e la salubrità del prodotto agricolo.
Mentre l’uso di fertilizzanti di sintesi, erbicidi e pesticidi va ad inibire e mortificare questa molteplicità di forme viventi.
Per mantenere in vita organismi e microrganismi terricoli è importante la presenza di aria e ossigeno all’interno del suolo; andranno dunque privilegiati macchinari e trattori leggeri in modo da evitare compattamento e asfissia (in un terreno fertile e vitale dovrebbe essere presente circa il 25% di aria). Anche le lavorazioni del terreno andranno eseguite correttamente e al momento opportuno utilizzando attrezzature adeguate.
La biodiversità all’interno del terreno è altresì determinante per la trasformazione e umificazione della sostanza organica, nonché per la degradazione e bonifica da parte del suolo di eventuali agenti inquinanti o nocivi. La conoscenza del suolo e la consapevolezza della sua importanza per la Vita sono il fondamento per tutelarlo dalle minacce cui è soggetto; basti pensare solo alla sua capacità di produrre alimenti oppure alla facoltà di immagazzinare, trattenere e filtrare acqua. L’associazione degli organismi viventi del terreno, dunque, va protetta e salvaguardata applicando un’agricoltura, come quella biodinamica, in grado di tutelare ed esaltare i cicli naturali e la diversità biologica. Si potrà ottenere cibo sano e vitale garantendo un bene comune come è il suolo.
ATTIVITA’ DEGLI ORGANISMI DEL SUOLO
Le attività degli esseri viventi del suolo sono strettamente legate alla demolizione della sostanza organica e, dunque, al processo di umificazione. Molte specie diverse prendono parte, una dopo l’altra, a questo processo.
Insetti come acari, collemboli, millepiedi sminuzzano il materiale grossolano (ad esempio foglie, residui colturali, ramaglie), mentre i lombrichi trascinano i residui delle piante nel terreno accelerando il processo di decomposizione. Già a suo tempo anche Darwin sottolineò l’importanza del lombrico per la formazione del suolo. Una volta incorporati al terreno questi residui vegetali vengono trasformati e decomposti da batteri, attinomiceti e funghi. In questa fase vengono prodotte sostanze particolari come antibiotici, sostanze cementanti ed elementi nutritivi e vengono inibiti germi patogeni. La struttura del suolo è resa più stabile.
A questo punto i funghi e i batteri che avvolgono le radici delle piante e che vivono in simbiosi con queste solubilizzano gli elementi nutritivi fortemente legati in modo che la pianta possa trarne beneficio (rizosfera, micorrize). Funghi e batteri svolgono anche funzione di protezione dalle malattie.
I lombrichi rimescolano la massa organica in decomposizione con la frazione minerale arrivando a formare i complessi argillo-umici. Si forma la terra, l’ambiente vitale delle radici delle piante.
Avviene ora la formazione di grumi grazie alla sinergia tra vari organismi e microrganismi, mentre i funghi formano un immenso intreccio di ife. Si forma una struttura stabile del suolo con cavità piccole e grandi che regola il bilancio dell’aria e dell’acqua facilitando la penetrazione delle radici (R. Gilomen, 1991). Da tutto ciò ne consegue un riciclo ottimale di elementi nutritivi.
Potremmo dunque paragonare questo processo al processo digestivo, considerando anche e soprattutto che il corretto funzionamento dell’intestino è fondamentale per la salute dell’intero organismo. Inutile ribadire che il lombrico, in tutto questo, svolge un ruolo centrale essendo un grande artefice della fertilità (anche se non è l’unico), poiché è in grado di amalgamare sostanza organica e particelle di terra. Le deiezioni del lombrico (turricoli) contengono sostanza organica e principi nutritivi in quantità superiore rispetto al substrato di partenza: sostanza organica +50%, calcio +150%, magnesio +300%, azoto +500%, fosforo +700%, potassio +1000%.
Ma è l’intera comunità terricola, nel suo insieme e nella sua complessità, che contribuisce al ciclo della vita (ciclo della vita = crescita e decomposizione). Il motore di tutto questo è il Sole.
L’agricoltura industriale sacrifica l’humus nel nome di una artificializzazione della natura dimenticando che l’humus è un anello fondamentale dei cicli biologici ed una risorsa dal valore indiscutibile. Tanto maggiore sarà lo squilibrio nel terreno e nell’ambiente quanto più diventerà necessario utilizzare prodotti fitosanitari per contenere malattie e problematiche varie. Il termine stesso malattia deriverebbe da mala azione in quanto alterazione delle funzioni di un organismo. Nel corso dell’evoluzione il terreno si è dotato di una organizzazione funzionale ed efficiente, così come l’intero ecosistema, ed una alterazione di questa organizzazione potrà essere causa di problemi o patologie. Occorrerà dunque prevenire le patologie lavorando “a monte” rispettando la naturale organizzazione presente all’interno del suolo e nell’ecosistema. E rispettando la pianta in quanto prolungamento del terreno (e organismo tra Cielo e Terra), poiché la concimazione non è solo una questione di elementi nutritivi ma anche e soprattutto di organizzazione del sistema pianta/suolo.
* La formazione di piante pioniere all’interno di un terreno dissodato e lavorato (piante pioniere che in agricoltura vengono definite erbe infestanti per via dell’azione di disturbo e competizione nei confronti delle colture) rappresenta il primo passo che la natura mette in opera per ripristinare un equilibrio ecologico. L’affermazione delle erbe infestanti è il primissimo stadio di un processo evolutivo dell’ecosistema che arriverà (nel tempo, senza un intervento umano) al massimo grado di equilibrio e stabilità tramite la formazione di boschi o foreste. Iniziando dallo sviluppo di erbe annuali e biennali.
Disegno di Elena Bassi