Pratiche di commercio sleali: l’Europa fa un passo avanti!
homepage h2
Ho iniziato a lavorare con le organizzazioni contadine del Costa Rica molto tempo fa e grazie a loro ho conosciuto la cultura della terra. Mi è sembrato qualcosa di molto potente e ho capito che quello che mangiamo ogni giorno ha dietro un’enorme conoscenza che fa sì che un seme si converta in alimento. Quel seme ha un valore quando esiste una cultura che glielo riconosce, rispettando i cicli della natura. Questa conoscenza associata alla biodiversità è ciò che ci ha dato di che mangiare durante tutta la storia dell’umanità.
Che situazione c’è oggi in Costa Rica?
A partire dagli anni ’80 si è diffusa l’agricoltura industriale, in concomitanza con un periodo di grandi cambi strutturali, in cui si è iniziato a smantellare lo stato sociale che aveva permesso che si investisse in salute, educazione e alimentazione. Da quel momento si è iniziato a promuovere un modello agricolo volto all’esportazione, basato sulla logica della rivoluzione verde, con monocolture e un utilizzo massiccio di prodotti di sintesi.
Eppure il Costa Rica si presenta come un Paese molto sostenibile…
Come Paese abbiamo investito in molti progetti di sostenibilità, come le riserve naturali, con una buona parte del territorio conservata in parchi nazionali. Il Costa Rica è piccolo, lo si può percorrere in un giorno e vedere l’alba sui Caraibi e il tramonto sulle spiagge del Pacifico, ma conserva il 6% della biodiversità mondiale.
Questo però non ha fermato l’espandersi di un modello orientato al consumo, generando numerosi conflitti sociali soprattutto delle zone rurali, dove intere comunità lottano per l’accesso all’acqua potabile o per difendere il territorio dall’espansione immobiliare. In alcuni casi si stanno spostando intere popolazioni e questo non lo raccontiamo al mondo.
Come non raccontiamo quello che succede a livello agricolo, che vede tutto il denaro pubblico investito per promuovere il modello delle monocolture volte all’esportazione. Le aree coltivate ad ananas sono aumentate del 1500% in questi 30 anni, come è aumentata la produzione di meloni, caffè, e piante ornamentali in grandi estensioni di proprietà di una sola impresa. Questo ha delle ricadute drammatiche sulla campagna, come la diminuzione drastica delle coltivazioni per scopo alimentare. Così se fino agli anni 80 eravamo autosufficienti nella produzione di mais, riso e fagioli, che sono alla base della nostra dieta, oggi ne importiamo circa l’80 per cento. Abbiamo perso i piccoli appezzamenti di terreno contadino, in cui la comunità coltivava gli orti per il consumo proprio e per i prodotti che venivano portati al mercato. Questo ci rende molto vulnerabili in termini di sovranità alimentare.
Che cosa ha comportato questo cambio a livello lavorativo?
Molti sono emigrati nelle città o in altri paesi in cerca di lavoro e molti lavorano per le piantagioni che sorgono sulla terra che prima era loro.
Le condizioni sono di grande sfruttamento, con salari inadeguati e totale instabilità.
Per esempio la legge dice che dopo 3 mesi il lavoratore deve essere assunto, con le ferie pagate, l’indennizzazione in caso di licenziamento e tutti i diritti. Ma nelle piantagioni allo scadere dei tre mesi invitano il bracciante a rinunciare. Se lo fai ti assumono di nuovo dopo una settimana per altri tre mesi, mentre se rifiuti ti iniziano a osteggiare, ti fanno fare i lavori più duri, e alla minima scusa ti licenziano. Poi non ti assumeranno più né li né in nessun’altra piantagione, perché sei entrato in una lista nera. Quindi tutti rinunciano, dato che in alcune zone le piantagioni sono così estese che rappresentano l’unica possibilità di lavorare. In questo contesto le poche persone che ancora conservano la cultura contadina sono sempre più isolate, in lotta contro tutto ciò che mette a rischio il territorio.
Parliamo dell’Ananas, che impatto ha sul territorio la sua coltivazione?
Il Costa Rica è il principale esportatore di ananas in Europa, e uno dei principali nel mondo. E’ il nostro terzo prodotto di esportazione, dopo le banane e i microchip (perché abbiamo un distaccamento di Intel). Quello dell’ananas è un settore molto redditizio che si trova in mano alle sfere politiche e finanziarie più potenti. E’ per questo che anche se sono numerose le voci che si oppongono a quel modello di produzione, non hanno il potere di cambiare le cose.
Il governo ha lanciato un’iniziativa di ananas sostenibili, per migliorare le condizioni di produzione del settore. Ma la lega dei produttori di ananas ha detto che non gli interessa diminuire l’uso di pesticidi e diserbanti né di migliorare le condizioni dei lavoratori, quindi negano persino di intavolare un dialogo al riguardo.
Nel frattempo le comunità continuano a soffrirne le conseguenze. Ci sono casi emblematici particolarmente gravi, soprattutto a causa della contaminazione dell’acqua. Le piantagioni ne utilizzano moltissima, insieme ai prodotti agrochimici, per accelerare il ciclo di produzione e fare in modo che i frutti siano sempre sul mercato e non solo due volte l’anno come dovrebbe essere se si seguisse il ciclo naturale della pianta.
Nella Regione dei Caraibi 4 comunità hanno visto una grave contaminazione delle falde acquifere. La vertenza che hanno fatto è stata vinta già 12 anni fa, ma da allora vivono con un camion cisterna che li rifornisce di acqua ogni due giorni per sopperire ai bisogni di tutta la famiglia. Inoltre, essendo una zona dal clima molto caldo, soprattutto i più piccoli vogliono farsi il bagno, ma questo ha provocato già malattie della pelle, casi gravi di gastriti e una maggiore incidenza di cancro. Ora sembra che verrà costruito un nuovo acquedotto, ma nel frattempo è scoppiato il caso di un’altra comunità della zona Nord che si trova nella stessa situazione.
Quindi sarebbe auspicabile un intervento più risolutivo?
Infatti. Da una parte è urgente fare fronte alla crisi in atto migliorando le pratiche ambientali e lavorative e assicurando il diritto di organizzazione sindacale, e dall’altra è necessario rinforzare le alternative, come la piccola produzione, i mercati locali e altre forme di agricoltura.
In un mondo sempre più integrato dovremmo sfruttare gli aspetti positivi della globalizzazione, come la possibilità di stabilire alleanze tra il nord e il sud, tra i paesi produttori e quelli consumatori. Rendere trasparente la filiera ed evidenziarne le principali criticità serve a fare pressione affinché le cose cambino: le denunce sono molto più efficaci quando a chiedere di alzare gli standard è il paese acquirente. La campagna Make Fruit Fair è arrivata in un momento ideale perché ha obbligato i produttori ad aprire la discussione e a rispondere di particolari casi. Inoltre è servita per far capire alla gente di qui che abbiamo degli alleati in Europa che stanno lavorando nella stessa direzione e che condividono la stessa nostra visione del mondo.
Cosa cambierà ora che il Parlamento Europeo ha preso in considerazione il dossier sulle UTPs (Unfair trading practices)?
Noi crediamo che sia un ottimo segnale, perché dimostra un’intenzione di cambiamento da parte della Unione Europea. Tuttavia il gesto è ancora più che altro simbolico, finché la Commissione Europea non definirà la sua messa in pratica. Quindi continuiamo a lavorare con le organizzazioni come Oxfam e GVC affinché si concretizzi questa dichiarazione di buone intenzioni per adottare forme di mercato che obblighino le imprese produttrici a cambiare le condizioni. Perché se il cambiamento non è strutturale, le imprese non faranno altro che spostarsi in luoghi in cui vengono meno infastidite, e non vogliamo che questo modello vorace si sposti altrove, né che le persone perdano la loro unica opportunità di lavoro. Quello che vogliamo è che la situazione cambi a partire da tutta la filiera.
Per saperne di più:
www.makefruitfair.org
www.gvc-italia.org