Anton Cechov, medico di formazione, diventa uno dei piu grandi drammaturghi della storia del teatro e nelle sue opere parla di campagna, natura, inquinamento ambientale. Altro illustre esempio è Leone Tolstoj, che gia nei suoi romanzi trattava di argomenti come la terra, la vita rurale , la ricchezza dei campi. Da romanziere affermato e uomo di cultura, dopo i 50 anni, Tolstoj da Mosca si trasferisce in campagna e impara a fare il contadino. Maurice Maetrlink, poeta e drammaturgo, premio nobel (1911), scrive “La vita delle api” , con la passione di un’entomologo e le parole di un visionario, per indagare lo spirito dell’avvenire. E ancora, Shakespeare, Lao Tzu, Seneca, e ancora, e ancora. Ci sarebbero da scrivere pagine e pagine per raccontare esempi di creatività e bio-diversità culturali che in passato hanno permesso all’uomo di rendere fertile il terreno delle coscenze, evitando le monoculture che isolano e rendono sterile la vita interiore come quella esteriore.
La risposta è nella radice semantica che le parole hanno in comune: citando Massimo Angelini.:”nell’intimo del suo significato coltura, e così cultura, è cosa fa crescere, cosa eleva, cosa onora, cosa è profondamente legato al culto”. Ecco la radice del discorso.
Anche oggi vivono tra noi esempi di un’antica levatura, esempi che spesso non li trovi sotto i riflettori dei salotti. Sono rari e preziosi come i fiori di campo, non si trovano in vendita al supermercato. Abbiamo girato l’Italia (vedi il sito
www.radicinelcielo.it ) per cercare e incontrare la cultura dei contadini sani, leali, appassionati, ma anche la cultura di uomini e donne di scienza e di lettere (che vivono con altrettanta passione ed esemplarità il proprio lavoro). La cultura (e la coltura) che indaghiamo è quella intesa in senso etimologico, ovvero in senso funzionale e non esteriore. Cultura non significa compiacersi del proprio nozionismo, non significa ostentare per differenziarsi ed elevarsi al di sopra dagli altri. Non deve essere, come spesso invece è, uno strumento di potere usato per soggiogare l’ignoranza! La cultura è strumento di vita, funzionale al metter in pratica, all’emancipazione individuale e collettiva, al libero arbitrio e all’autonomia, al saper fare, e alla fertilità. Questa è la radice della questione! Questa è la chiave di volta che può innescare il cambiamento tanto auspicato oggi. Se si trasforma il vecchio modo stantio di pensare, ovvero se si inizia veramente a pensare con la propria testa, e si smette nel credere a delle convinzioni false e strumentali ( vedi anche colture intensive e allevamenti industriali) allora si potrà cambiare e trasformare l’intenzione che anima le nostre azioni e i fatti che le azioni producono.
Serge Latouche la chiama decolonizzazione del pensiero. Servono storie, racconti, storie vere, ricerche e riflessioni. Cosi nell’agricoltura come nell’arte o nella scienza, fino ad arrivare alle relazioni socialie, al senso di condivisione e di appartenenza. Andare oltre il proprio orticello, oltre le proprie false convinzioni, oltre la propria solitudine. E per fare questo bisogna recuperare lo sguardo del bambino come ci racconta una pediatra che abbiamo conosciuto.
Lorella Ciferri, di origine marchigiana, sulla cinquantina, medico pediatra, o meglio come dice lei “ pediatra di famiglia, pediatra di campagna”. Presidente ISDE (Associazione Internazionale Medici per l’Ambiente) della sezione provinciale di Fermo. Lavora in una zona definita disagiata, 16 piccoli comuni a bassa densità di popolazione. La passione per le lettere gli inizia sin da piccolina, con la parola scritta e la lettura nasce subito un grande amore. Lorella racconta che nella sua famiglia, di umili origini, non c’erano i soldi per comprare libri, cosi lei , pur di poter leggere, si divertiva a recuperare i fogli dei giornale con cui venivano avvolte le verdure. Con il passare degli anni, nel suo percorso formativo, dedicherà un periodo della sua vita all’attività di bibliotecaria, e dice che quello è stato uno dei periodi che ricorda con maggior piacere, “ perchè i libri mi parlavano”.
Continua Lorella: “La vita è letteratura, quando entro in una casa è sempre un emozione, e tutto ciò che vedo e che percepisco lo tengo a mente. Tra una visita e l’altra mi sposto in macchina, e attraversando le campagne contemplo la bellezza della natura e intanto in me continuano a scorrere le sensazioni e i pensieri che mi son rimasti dentro, poi, tutto questo finisce sul mio diario, ed è attraverso la scrittura che acquisto quello sguardo affilato che riesce meglio ad interpretare la vita. La letteratura consente di interpretare il reale, ed è per questo che scrivo, perche cosi facendo riesco a comprendere meglio quell’umanità, cosi varia, che incontro nel mio lavoro di ogni giorno”.
Così presenta uno dei suoi brevi racconti che pubblichiamo qui di seguito per intero: “Nei miei diari di lavoro spesso inserisco anche anche i ricordi della mia infanzia, perchè i bambini hanno lo sguardo penetrante e attento, e di questo io mi devo ricordare ogni volta che un bambino mi guarda. La prima volta che incontrai la solitudine, senza sapere cosa fosse, avevo 6 anni”.
Segue il suo bellissimo racconto intitolato L’uomo dei giornali:”Si chiamava Attilio, di mestiere straccivendolo, perciò detto Attilio lo stracciarolo. Era fratello di Lina la cantiniera e di Olga. Tutti e tre, ormai vecchie mai sposati, vivevano insieme in un appartamento di via Cairoli al primo piano, poco più giù di casa mia. Di Olga sapevamo che esisteva. E niente altro. Mentre Lina la conoscevamo bene. Nella sua cantina si potevano comprare i cornetti gelati già all’inizio della primavera, prima che nei bar, e a costo più basso. Anche se i coni non erano mai freschi, sempre molli e gommosi. Si andava, noi bambini della piazzetta, in tre o quattro, così come si va in un posto proibito. Il primo spingeva forte la porta e poi dentro, in fila, uno dietro l’altro. Sferzava le narici l’odore acuto di umido e di vino. Lina, alta e secca, i capelli tirati in una crocchia grigia, stava dietro il banco a vigilare sulle ore immobili dei bevitori, sui gomiti poggiati ai tavoli davanti ai quartini mezzi vuoti mezzi pieni. Alzandoci sulle punte dei piedi ficcavamo tutta la testa dentro al grande frigo dei gelati e lei ci veniva incontro, parca di sorriso sotto la fine peluria nera del labbro. Accuratamente ritirava le monetine da dieci lire, una a una dai nostri pugnetti semichiusi. Era sempre lì in cantina, non sapevamo mai quando rincasava. Ma il fratello, Attilio, oh, lui invece lo controllavamo, lo spiavamo sempre, come passatempo e come impegno. Lungo lunghissimo magro magrissimo. Come un punto esclamativo. La capa pelata, la bocca senza labbra, l’occhio nudo senza sopracciglia, uno sguardo tondo da uccello. Un archetipo di vecchiezza. E la sua bicicletta, costruita appositamente per lui, per i suoi arti smisurati. Mai viste ruote così grandi e una sella così alta. Ci stava su diritto con il collo e con la schiena il nostro Signor Bonaventura senza colori e senza sorriso. Gli bastava un giro di pedali per scivolare da via Trento a piazza Vespucci e un altro soltanto dalla piazza a via Cairoli. Rotolavano dietro di lui i nostri schiamazzi. Qualcuno più spavaldo lanciava sassolini sulle ruote, ma lui proseguiva senza posare mai lo sguardo su di noi, mai. Solo un gesto della mano come a scacciar mosche. La bici era carica di buste di plastica ricolme di stracci e pure piene erano le grandi tasche di pelle consunta attaccate ai due lati della ruota posteriore. Sul portapacchi, legato con lo spago, un mucchio di quotidiani. Depositava la bici e i sacchi in un magazzino sul retro in via Leopardi, quindi ricompariva sull’uscio di casa con il pacco di giornali tra le braccia. Era il segnale convenuto. Nicoletta e io di colpo abbandonavamo i giochi, ci infilavamo in un portone al numero 8 di via Cairoli, su di corsa per le scale fino al pianerottolo tra primo e secondo piano, per acquattarci davanti a un finestrino basso. Era la posizione migliore per spiare Attilio dentro la sua stanza. Stavamo lì accovacciate l’una di fianco all’altra con gli occhi puntati alla finestra di fronte. Una finestra nuda senza persiane né tende, la vernice screpolata degli infissi. Sapevamo che nel frattempo lui stava avvolgendo il corrimano della ringhiera sulle scale con i fogli dei quotidiani. Li cambiava sempre, tutti i giorni. E aspettavamo. Finché compariva il suo profilo d’ossa dietro il vetro opaco, alla luce fioca di una lampadina che pendeva desolata dal soffitto. Eravamo terribilmente attratte da quella strisciata di grigio sul nostro mondo a colori. Sorvegliavamo ogni suo gesto mentre preparava il desco. Certo d’estate, con le ante spalancate, era più facile guardare le sue povere cose: il tegamino, il pentolino, il bricco per il latte sulla cucina a gas. Pacchi di giornali per terra dappertutto e contro i muri. Attilio ne prendeva uno, lo sfogliava, lisciava con cura la carta sopra il tavolino e poi lo incartava. Sempre, tutti i giorni. E noi lì appese allo spettacolo di quella silenziosa e quotidiana follia. I nostri compagni, invece, più piccoli e impavidi avevano un’altra postazione. Si arrampicavano sul terrazzino sopra il botteghino della pasta, proprio adiacente alla casa di Attilio, e appollaiati sul parapetto potevano guardare nell’altra parte della stanza, dove era il letto. Che non era un letto, non c’erano né rete né materasso. Attaccato alla parete un parallelepipedo di mattoni crudi, ricoperto di quotidiani. E lì si coricava coprendosi di altri fogli a mo’ di lenzuola, il nostro San Francesco dei giornali. Aveva fatto la guerra in Libia: era un reduce, un sopravvissuto, un superstite. Non parlava con nessuno, non conoscevamo la sua voce, non lo sentivamo gridare dalla strada come l’arrotino o l’ombrellaio. Si accostava ogni tanto al vecchio Vittorio che, davanti casa, si sedeva a lucidare la motoretta rossa. Solo Ester, 6 anni e due ciuffi di capelli con grandi fiocchi, quando li vedeva insieme si avvicinava per ascoltare i racconti di Attilio. Non si capiva niente quando parlava, biascicava, balbettava ma Vittorio per Ester traduceva. La guerra, la guerra, la Libia, il deserto, i morti, i morti, i morti, il deserto, la paura, che paura, la fame, che fame, atroce come il veleno. Aveva mangiato cavallette. Allora Ester si precipitava da noi gridando: “ha mangiato le cavallette”. E noi quello, quello aspettavamo, nei nostri pomeriggi di spionaggio, qualcosa di clamoroso, poter sorprendere Attilio davanti a un piatto di cavallette vive oppure Attilio che con i giornali appiccava il fuoco a tutta la casa, a tutta via Cairoli. Danzando come un derviscio. Finché un giorno di autunno tardo e nuvoloso, tornando da scuola, notai sulla via uno strano insolito silenzio. Le botteghe ormai chiuse. Un gruppetto di uomini eleganti con bei paletot grigi e cappelli scuri. Due carabinieri. Dei sussurri. Mi fermai un attimo, per vedere se vi fosse tra quelli anche un Maigret con la pipa. Salii in casa. “Che è successo?” chiesi a mia madre. “Una disgrazia, è morto un uomo, un nostro vicino. Oggi è giornata di lutto, resterete tutti a casa, non potete andare fuori a giocare”. Poi ascoltai i suoi discorsi da finestra a finestra con la madre di Nicoletta. L’uomo si era impiccato. Attilio, sì, doveva essere lui, di sicuro. E invece no, era Emilio. “Chi è Emilio?” Era un uomo anziano, viveva solo da tanto tempo, due portoni più giù, al piano terra “Si è impiccato perché era triste?” Sì, disse mia madre, perché era triste. Dopo un po’ scesi di soppiatto sulla strada, girai intorno ai tre lati della casa più volte, controllando tutte le finestre. Ma c’erano le grate, e le imposte chiuse. Com’è possibile che io non mi sia mai accorta di lui?”.
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