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“Riscriviamo il futuro dell’agricoltura”

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Il Coordinamento Romano per l’Accesso alla Terra ha simbolicamente occupato l’area dell’Azienda Agricola Castel di Guido, nelle campagne laziali, per ribadire la richiesta alla Regione di non vendere l’area.
Hanno rimesso in moto i trattori fermi da tempo, potato l’oliveto, raccolto il fieno. Stanno lavorando la terra per scongiurare il rischio della chiusura definitiva di Castel di Guido, storica realtà del biologico laziale, la più importante con i suoi 2.000 ettari di terreno di proprietà della Regione e gestiti dal Comune di Roma. Un’azienda che per decenni ha rappresentato la migliore esperienza di agricoltura nel Lazio e che da troppo tempo langue a causa di una gestione che l’Aiab, l’Associazione italiana per l’agricoltura biologica, giudica senza mezzi termini “pessima”, un esempio eclatante “di inefficienza amministrativa che erode le risorse pubbliche”.
Oggi cittadini, associazioni, aziende e cooperative dell’agro romano si sono affiancati ai lavoratori occupando Castel di Guido, un’azione dimostrativa per chiedere “alla Regione di riaprire la discussione per evitare ogni idea di privatizzazione” e al Comune di Roma “di aprire un tavolo per il rilancio dell’azienda”. Altrimenti? “Altrimenti continueremo l’occupazione, ma confidiamo nella Regione e nel Comune”, dichiara all’Adnkronos Andrea Ferrante, direttore Aiab federale, da stamattina sul posto.
L’area, che arriva dal patrimonio del Santo Spirito, si occupa da anni del biologico ed è stata protagonista dell’avvio di progetti interessanti, come quello della mozzarella di Castel di Guido con cui venivano rifornite le mense scolastiche della Capitale. In perdita da anni, Castel di Guido è compressa tra una mala gestione comunale e una proprietà regionale che procedono a forza di tagli. Una gestione, quella del Comune di Roma, “non brillante, anzi ultimamente tragica”, sottolinea Ferrante, che ha portato all’attuale situazione.
“Non ci sono neanche più soldi per il gasolio che serve ad alimentare i trattori, le macchine sono ferme, l’azienda versa nell’abbandono, gli operai sono impossibilitati a lavorare e il caseificio è stato chiuso mesi fa dalla Asl per la quale non erano garantite le norme di igiene. Insomma, il Comune che chiude se stesso”, racconta Ferrante. In questa situazione di sofferenza la prospettiva più probabile è che l’azienda torni alla Regione Lazio che, avendo previsto nel collegato agricolo una norma per la vendita dei terreni, potrebbe liberarsi di questa terra offrendola al miglior compratore.
“La Regione Lazio apre di fatto alla possibilità della vendita dei terreni. Si prospetta quindi una situazione di abbandono e di privatizzazione per queste terre che hanno invece grosse potenzialità economiche, occupazionali e di tutela ambientale – aggiunge Ferrante – Noi proponiamo un altro modello, cioè la possibilità di una gestione diretta delle aziende del territorio in collaborazione con l’amministrazione”.
“Quando si parla di terra, è assolutamente necessario – conclude Andrea Ferrante – tornare a valorizzare con forza il bene pubblico contro l’idea imperante di privatizzazione e di profitto”.

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