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Un anno nella vita di un contadino

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Vi presentiamo un testo tratto da “Il libro di Pietro”: la storia di un contadino toscano che racconta, attraverso le sue memorie, il ricordo più autentico della civiltà rurale.
IL LIBRO DI PIETRO
a cura di J. Bawtree
Terra Nuova Edizioni
pp. 216 – € 15.00 – IN OFFERTA A € 12.75
 Un brano dedicato alla vita dei contadini tratto dal libro:“MAGGIO VIVE FRA MUSICHE DI UCCELLI”
È vero, tutti gli uccelli cantavano nel mese di maggio, i pettirossi, i merli, gli scriccioli, gli usignoli, le upupe e i rigogoli. Quest’ultimi andavano sempre nei fichi. Il maschio stava sul greppo e chiamava: “È pronto il fico?”. E la femmina, già nell’albero, rispondeva: “Che che che!”. Poi il maschio: “C’è pericolo?”. E la femmina: “Che che che!”. A quel momento il contadino sparava e tutti e due volavano via, avvertendo tutti: “C’è pericolo, c’è pericolo!”. Sembra proprio che dicano queste parole. O piuttosto sembrava perché ora non si vedono più, si dice che sono stati ammazzati dai veleni che si mettono nei campi. Anche l’upupa era comune e ora è quasi sparita anche lei.
Nel mese di maggio dovevamo fare il fieno per le bestie. Quello di maggio si chiama il primo taglio, era una mescolanza di erba medica e altre erbe che crescono spontaneamente nei prati. Il secondo taglio si faceva alla fine di giugno. Se il tempo permetteva si faceva un terzo taglio a settembre, ma il primo taglio era quello più abbondante. Prima si tagliava l’erba con la falce fienaia. Si lasciava il fieno per terra per un paio di giorni, poi si girava per asciugare quella parte che era a contatto con la terra. Quando era asciutto anche quello si facevano dei moncelli e si veniva col carro per portarlo all’aia. Il proverbio dice che “maggio è nuvoloso ma non piovoso”, ma in verità spesso pioveva.
Una volta che il fieno era stato bagnato era meno buono, diventava marrone e buttava un po’ di polvere, ma bisognava raccoglierlo lo stesso. Poi facevamo il pagliaio. Si metteva il fieno sciolto man mano intorno a uno stollo, cioè un palo centrale, e quando arrivava a qualche metro da terra lo coprivamo con un tetto di paglia a forma di cono. Fare un pagliaio era un’arte e se non lo facevi bene il fieno si bagnava e si rovinava.
In maggio si lavavano le pecore e poi si tosavano. Per lavarle si portavano giù al borro di Mercatale, c’era un punto che si chiamava “il tuffo” e si buttavano dentro. Non ci andavano volentieri, allora c’era uno che le buttava e due che le lavavano, gli si strizzava la lana per mandare via lo sporco, poi si lasciavano scappare e correndo loro si asciugavano da sé. Noi ne avevamo una ventina solamente, in una mattinata si lavavano tutte e il giorno dopo si tosavano. Si prendevano una a una, gli si legavano tutte le quattro gambe insieme, si mettevano sopra il carro e si tosavano con le forbici. Quello che si levava si chiamava il vello.
La metà dei velli si dava al padrone, l’altra metà toccava a noi. Prima le donne filavano loro la lana, ma verso gli anni Cinquanta si portava a un certo Marcello di Montevarchi, è vivo ancora. Lui aveva i macchinari per filare la lana e tesserla, così ci rendeva la stoffa pronta per fare i vestiti.
“GIUGNO AMA LA FRUTTA APPESA AI RAMOSCELLI”
Nel mese di giugno c’erano le ciliegie, sì, ma la maggior parte della frutta, le mele, le pere, le albicocche, le prugne, non erano ancora mature, bisognava aspettare fino all’autunno per coglierle. In questo mese cresceva ogni cosa e questo ci dava molta soddisfazione.
Si cercava di avvantaggiarsi in tutti i lavori del podere per liberare il prossimo mese per quello più faticoso dell’anno: la raccolta. Si continuava a zappare perché quello era un lavoro che non finiva mai e si lavorava nell’orto per incalzare le patate e levare le erbacce. Poi bisognava curare le viti. In giugno buttavano troppa foglia, allora si levavano diversi tralci e si davano da mangiare ai maiali e alle bestie. Così il sole arrivava meglio all’uva che ormai cominciava a gonfiare. A questa bisognava dare anche lo zolfo con una macchinetta, se no si ammalava. Si dava poi l’acquetta a tutte le vigne e anche agli olivi se c’era bisogno.
Ora faceva caldo, allora cominciavamo a lavorare presto la mattina, alle cinque faceva già luce. Durante le ore più calde ci si riposava un po’ sul letto. Naturalmente si andava scalzi, nessuno portava gli zoccoli da marzo in poi. I piedi diventavano duri, si poteva camminare anche sui sassi senza sentire niente. A proposito di piedi duri, vi racconto una storia vera. Spesso i contadini lasciavano il lavoro verso le undici per via del caldo, allora riempivano il tempo andando dal fabbro per farsi assottigliare le zappe.
A volte si trovavano in diversi, allora facevano un po’ di mercato mentre aspettavano il loro turno. Un giorno erano lì e sentivano un puzzo di bruciato, di rosticcio. Allora si chiedevano che brucia, che non brucia, ma non riuscivano a capire da dove veniva quell’odore. Fatto sta che il fabbro aveva appena fatto la bozza di un coltello a petto e l’aveva buttata a terra perché si doveva freddare prima di essere arrotata. Il Begna, uno dei contadini, l’aveva pestata con il calcagno del piede e gli friggeva il callo ma lui non se ne accorgeva, se ne accorsero quelli intorno.
Dissero: “Sei tu che bruci!”. Con il callo alto che aveva non sentiva niente. Un giorno il Begna andò in cantina a mezzogiorno per prendere il vino e chiuse la porta a chiave come era solito fare. Ci tornò la sera per prendere un’altra bottiglia ma non trovò la chiave, allora gli toccò cenare senza vino. Poi andò a dormire e quando si levò gli zoccoli trovò la chiave dentro uno di loro. Si vede che quando la tolse dalla toppa a mezzogiorno fece per metterla nella tasca del corpetto, invece scivolò giù e gli andò dentro uno zoccolo. Quel contadino era stato in giro per delle ore con la chiave lì senza accorgersene e le chiavi erano grosse come un dito allora, quello lì aveva il callo alto davvero….
Testi tratti da Il libro di Pietro pagina 117 e seguenti.
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