«Sempre morbido». «A fette». «Buono e sano». Sono questi gli slogan più comuni usati per promuovere la nuova generazione di pan carrè; che si rifiuta di riconoscersi come tale. È il pan carrè radical chic: «Pan Bauletto», «Filone rustico», «Pan Brioscé»… Così la grande famiglia del mulino bianco, dopo i biscotti, i cracker, i grissini, le merendine, vuole mettere finalmente le mani sull’alimento per eccellenza: il nostro pane quotidiano. E come sempre, inizia con la semantica: pubblicità dopo pubblicità, cerca di darci a intendere che il pane in cassetta industriale non solo si può equiparare al pane tradizionale, ma possiede anche il valore aggiunto di una maggiore durata e la comodità di non doverlo affettare. Non è possibile, si penserà, che succeda come nel Nord Europa e negli Stati Uniti, dove ormai da tempo il pane industriale è diventato il pane comune: quando si tratta di abbassare la qualità del cibo, infatti, il nostro Paese di solito reagisce bene. Purtroppo i dati forniti dalla società di ricerche di mercato GfkIha Italia a questo riguardo ci costringono invece a riflettere: nel 2006 in Italia sono stati venduti 49.200 tonnellate di prodotto, con un aumento del 16,4% rispetto all’anno precedente, per un valore di 107,5 milioni di euro. «Una ripresa» dichiara il sito internet distribuzionemoderna.info «legata soprattutto alla forte spinta promozionale […]. Sempre più spesso, inoltre, i consumatori trascorrono parte della loro giornata fuori casa e hanno poco tempo per approvvigionarsi di pane fresco. Il pan carrè, quindi, sfida apertamente il pane artigianale sul terreno dei consumi quotidiani, puntando principalmente sull’alto contenuto di servizio e su una shelflife prolungata». Dichiarazioni come queste sono sufficienti per giustificare un approfondimento sulle caratteristiche e il valore nutrizionale del pane in cassetta industriale.
Occhio agli ingredienti
Il pane tradizionale è costituito essenzialmente di farina, acqua, lievito e sale. Ma se si dà un’occhiata all’etichetta del pane in cassetta industriale (vedi box), si trovano tutta una serie di ingredienti in più, necessari per tenere insieme l’impasto, evitare la formazione di muffe e infine trattenere più acqua. L’acqua è infatti il maggiore ingrediente del pane in casetta industriale. Una ricerca inglese ha evidenziato che nel 1978 il suo contenuto, di norma molto più elevato rispetto al pane di fattura artigianale, era intorno al 40%. Negli anni seguenti, la quantità d’acqua è ulteriormente aumentata, fino a raggiungere nel 1986 il 45%, contro il contenuto medio del pane convenzionale che varia, a seconda delle varie tipologie dal 29 al 34%.
Pesticidi, lievito e zucchero
L’altra differenza sostanziale riguarda la natura stessa della panificazione industriale. I fornai artigiani, che oggi sono diventati un’esigua minoranza, lavorano il pane e poi prima d’infornarlo lo lasciano lievitare. La maggior parte del pane industriale, invece, è preparato utilizzando il cosiddetto Chorleywood Bread Process (CBP), un procedimento molto rapido che però richiede l’impiego di grandi quantità di lievito. Il risultato è un pane pieno d’aria e ricco d’acqua, «tenuto su» grazie all’aggiunta di grassi e addizionato con un elevato quantitativo di sale per compensare la mancanza di sapore. «A differenza dei panificatori tradizionali che utilizzavano la pasta madre, nei panifici industriali oggi si adopera il lievito di birra, molto più veloce e di facile reperimento» spiega Augusto Cattaneo, esperto scientifico per la valorizzazione dei prodotti tipici regionali di Slow Food. «Il problema consiste nel fatto che la pasta madre, oltre al semplice lievito, contiene anche lactobacilli, elementi preziosi che conferiscono, in base all’acqua, all’aria e alle farine, un particolare sapore al prodotto finale che viene a perdersi e ad omogeneizzarsi con l’impiego dei lieviti industriali». Il CBP quindi è un metodo veloce, economico e, dal momento che produce una maggiore quantità di pane per sacco di farina, vantaggioso, almeno per i panificatori. Il risultato è un pane che dura a lungo ma senza la consistenza, né il sapore o la qualità del pane cucinato con cura. Anche il pane in cassetta ottenuto da farine integrali non biologiche, che a prima vista potrebbe sembrare più salutare, ha i suoi problemi. Secondo una ricerca inglese pubblicata nel giugno 2005 dal Pesticides residues committee (www.pesticides.gov.uk), il pane integrale non biologico contiene livelli di residui di pesticidi più alti di altri tipi di pane, proprio perché i pesticidi vanno ad accumularsi nella parte esterna del chicco (crusca). Il rapporto ha rivelato, in 53 dei pani testati, residui di chlormequat (un regolatore di crescita), glyphosate (disseccante), malathion (insetticida) e pirimiphos-methyl (usato nella conservazione). Nessuno di questi superava il livello massimo consentito dalla legge; ma per un componente così importante della nostra dieta, non dovremmo forse pretendere un livello di contaminazione pari o almeno tendente a zero?
Un pane che non sazia
I nei del pane in cassetta industriale non finiscono qui. Basta annusare attentamente oppure fare attenzione all’odore che esce dalla confezione quando la si apre, per avere subito una sgradevole sorpresa: la presenza di alcol tra gli ingredienti. In realtà l’alcol, la cui funzione è quella di rendere il prodotto molto morbido, quando è presente in quantità limitate non ha effetti tossici ma abbassa notevolmente l’indice di sazietà. Questo fatto porta facilmente a consumarne più del dovuto, a causa del fatto che il pane si scioglie in bocca. Non c’è nemmeno il bisogno di masticare; ma è evidente che soprattutto per i bambini e gli adulti che hanno problema di sovrappeso, non è certo un alimento da consumare quotidianamente. Fortunatamente in Italia non siamo ancora a questo livello, ma negli Stati Uniti il pane in cassetta industriale è composto da una lista interminabile di ingredienti che lo rendono talmente morbido e appetibile che non è difficile mangiarne mezzo chilo in un solo pasto: una vera e propria droga. Un’ultima riflessione riguarda il fatto che la stragrande maggioranza del pane in cassetta preconfezionato viene acquistato nei grandi supermercati, forniti generalmente dagli impianti industriali, sottraendo così diverse fette (letteralmente!) di mercato al piccolo fornaio locale.
Le alternative
Una delle ragioni, dicono alcuni, del successo del pane in cassetta è che il filone tradizionale non è più quello di una volta. Certo è che paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti hanno lasciato scadere la qualità del pane, abbandonando un artigianato millenario a favore di soluzioni industriali più veloci che producono un pane soffice, uniforme e insapore adatto solo come accessorio dei ripieni per panini. Ma siamo proprio sicuri che nel nostro paese le cose siano così tanto diverse? In realtà trovare del pane buono anche in Italia sta diventando sempre più difficile, soprattutto in alcune città del Nord. Il pane fresco che si trova nella maggior parte dei panifici cittadini infatti è «semindustriale»: appena acquistato non è male, ma diventa pressoché immangiabile già dopo mezza giornata dalla produzione. La scarsa qualità è dovuta al fatto che vengono utilizzati additivi per ridurre il tempo di produzione e quindi il costo, e farine poco pregiate. «Penso che la diffusione di una cultura del pane sia scarsissima e che, perché si possano sostenere e valorizzare le piccole produzioni di qualità, sia necessario educare sia i tecnici del settore, sia il pubblico» conclude Cattaneo. Una cosa quindi è chiara: il pane in cassetta di tipo industriale è tutt’altra cosa rispetto al pane tradizionale, presentando fra l’altro tutta una serie di problematiche nutrizionali. E non c’è migliore difesa contro le frottole della pubblicità che educare il palato, nostro e dei nostri figli, ad un prodotto di qualità. Perché sul pane non si scherza.
a cura di Nicholas Bawtree