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Grani antichi, l’importante è che ci sia evoluzione

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Abbiamo intervistato Giovanni Dinelli, docente universitario e referente del progetto Virgo. Una filiera del pane in Emilia Romagna che parte dalla reintroduzione di 5 varietà di grano antico. Ma non bisogna guardare troppo al passato, l’agricoltura si evolve…
Un pane d’altri tempi, più sano e digeribile, che richiama profumi dimenticati e ci porta in tavola il valore aggiunto delle nostre campagne. I frumenti a marchio Virgo sono un miscuglio di grani teneri di antica costituzione coltivati in Emilia Romagna: un prezioso patrimonio di biodiversità selezionato in base a precise qualità di ogni varietà di grano scelto.  
La produzione segue un disciplinare che impone tecniche agricole e di trasformazione ben precise. Nei campi si parte con i dettami dell’agricoltura biologica o biodinamica, e poi si procede, a valle della filiera, con macinazione a pietra e lievitazioni con lievito madre. I protagonisti di questa felice riscoperta, che crea nuove opportunità di mercato per l’agricoltura dell’Emilia Romagna, oltre ovviamente ai contadini e agli studiosi che si sono occupati del progetto, sono i frumenti a taglia alta. I cosiddetti grani antichi, recuperati e rimessi nel campo. Quelli selezionati dal Progetto Virgo si chiamano Andriolo, Inallettabile, Verna, Gentil Rosso e Frassineto. Ma andiamo per ordine, riavvolgendo il nastro e cercando di spiegare bene la genesi del progetto.
“Il progetto è nato perché nel 2008/2009 abbiamo fatto una domanda sulla Legge 28 di Regione Emilia Romagna che finanziava la ricerca” ci spiega Giovanni Dinelli, agronomo e Professore ordinario di Scienze Agrarie all’Università di Bologna. “ Il progetto allora si chiamava Biopane, e aveva lo scopo principale di trovare l’alternativa ai frumenti moderni per il biologico. Nel percorso abbiamo scoperto che queste piante a taglia alta, che le nostre civiltà avevano coltivato per millenni, sono sì meno produttive, ma in realtà sono molto più efficienti ad utilizzare l’azoto rispetto ai grani moderni, sopratutto se parliamo di azoto biodisponibile nella sua forma naturale”.  
Dinelli ci confessa che per metà della sua vita accademica si era occupato di erbicidi, facendo spruzzare veleni per lungo e per largo in Emilia Romagna . La svolta nel 2000, alla nascita di un figlio, quegli eventi che ti fanno dire basta e ti fanno cambiare vita, oltre che modo di pensare. Da allora ha scelto di dedicarsi all’agricoltura biologica. E ad oggi rimane uno dei pochi docenti su scala nazionale che si occupa solo di biologico.
L’intento iniziale di Dinelli e il suo team, era quello di cercare delle varietà più funzionali all’agricoltura bio. Perché tutti i semi che vengono utilizzati in agricoltura, di fatto, sono funzionali alle scelte varietali dell’agricoltura convenzionale. La chiave di volta andava ricercata nel passato, perché fino al 1950 tutto era biologico, la chimica nei campi non veniva somministrata, e il grano cresceva lo stesso!
“Le antiche varietà non riescono a sopportare i grossi input di azoto che si usano nel convenzionale” prosegue Dinelli.  “ Se invece si lavora con bassa disponibilità di azoto, e con un lento rilascio, come richiede l’agricoltura biologica, allora questi grani antichi sono sicuramente molto più efficienti, grazie all’apparato radicale più ampio. Oggi ci sono produttori bio che fanno rese alte con grani moderni sostituendo l’urea con la pollina. Ma quello le nostre varietà a taglia alta ci permettono di operare in modo più coerente: parliamo di colture che richiedono attenzioni colturali e rispetto alla terra, ma che non hanno nemmeno bisogno di letame.  
Tutto l’azoto raccomandato dalle multinazionali delle sementi e dai produttori dei grandi pastifici, di fatto non vengono assorbiti dalle piante, e finiscono come residui nelle acque, nei fiumi e nei mari, dove si crea il fenomeno dell’eutrofizzazione. Le conseguenze e i costi di queste pratiche sono enormi: alla fine i privati, in questo caso le industrie agricole massimizzano i profitti a scapito della collettività, scaricando i costi sul settore pubblico”.
Inizialmente Dinelli, che ha all’attivo diverse pubblicazioni scientifiche in materia, era partito con lo studio di una trentina di varietà di antica costituzione, per poi selezionarne 5 che sono state confrontate con quella che si è manifestata la migliore della varietà a taglia bassa, il palesio, varietà introdotta nel 2004, a granella rossa, che ha sempre risposto bene anche in agricoltura biologica. Il confronto sui valori nutrizionali è davvero impietoso: le varietà antiche hanno un contenuto di metaboliti secondari superiore, oltre che a una diversa struttura del glutine, che li rende meglio assimilabili e meno tossici per l’organismo.
Abbiamo chiesto a Dinelli perché sono state scelte queste 5 varietà. “Abbiamo scelto l’andriolo perché ha una spiga con delle reste molto robuste. Per le aziende in area collinare, c’era infatti bisogno di proteggersi da nuove razze di cinghiali, introdotte dai cacciatori, che sono ghiotte di frumento. In questo caso le reste della spiga sono come spine e rimangono sgradite agli ungulati. Abbiamo scelto il verna perché è il frumento con qualità nutrizionali migliori, a granella rossa, e rende bene nella panificazione. Poi c’è il frassineto, che ha le caratteristiche di panificazione migliori, forse per una forza del glutine leggermente superiore (tra i 60 e i 70 W contro i 40 delle altre varietà). Anche il gentilrosso è stato scelto per i profumi che riesce a dare al pane, anche se è la varietà più difficilmente coltivabile, molto alta, che alletta facilmente. E infine c’è l’inallettabile, che è la varietà più produttiva di tutta, che anche a regime biologico riesce a rendere, in media tra collina e pianura,  circa 35-40 q per ettaro”.
Nelle aziende di riferimento, sono in tutto 11, si coltivano le varietà in due modalità differenti. Da una parte si lavora per la produzione, attraverso i miscugli dei cereali, dall’altra si fa un lavoro di conservazione in parcelle, dove le varietà vengono coltivate in purezza. La cosa più interessante però è il miscuglio, che permette al grano di evolversi in modo diretto e indipendente, a seconda delle condizioni ambientali in ogni singola azienda. “Ci attendiamo che questi miscugli creino un’evoluzione adattata al luogo. Siamo partiti da 5 varietà, ma diventeranno sicuramente un qualcosa di diverso, perché ogni anno c’è un 5% di incroci e si crea variabilità. Da una parte gli agricoltori conservano, ma contemporaneamente vanno avanti. “L’agricoltura è sempre stata evoluzione” spiega Dinelli. “Il gentilrosso, come varietà, è stato selezionato alla fine dell’Ottocento. Ma se si guarda alle temperature medie del 1870 ci accorgeremo che oggi abbiamo una differenza di 4 gradi in più. Allora d’inverno c’erano 14 giornate con temperature medie sotto lo zero, oggi nemmeno una. Non si può pretendere di recuperare antiche varietà e riproporle tali e quali nei nostri campi. C’è bisogno di biodiversità e di evoluzione. La diversità, del resto, si conserva nei campi, non certo nelle banche del seme congelato”.

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