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Gennaio grandi e piccoli imbacucca

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Un passo tratto da “Il libro di Pietro”, un testo che ci mostra la vita di un tempo attraverso gli occhi di un contadino. Una preziosa raccolta di memorie che ci regala il più autentico ricordo della civiltà rurale.
Il libro di Pietro
a cura di Jenny Bawtree e Pietro Pinti
Terra Nuova Edizioni
pp. 216 – € 15,00
(per gli abbonati € 13,50)

In effetti, il mese di gennaio era il più freddo dell’anno. Si poteva lavorare poco nei campi perché erano spesso ghiacciati. Oggigiorno nevica poco, ma mi ricordo che a quei tempi nevicava ogni anno e spesso la neve rimaneva per diverse settimane. Bisognava fare subito i camminamenti, cioè levare la neve a palate per creare dei sentieri: dalla casa alla catasta di legna, dalla casa alla conciaia, dalla casa al pagliaio e alla pozza, dalla casa alla fonte. Per fare quel camminamento di trecento metri ci voleva tempo e parecchie eresie. Allora tutti fuori con le pale prima che la neve diventasse troppo alta. La pozza conteneva l’acqua piovana e si usava per dare da bere alle bestie, per lavare i panni e così via. Spesso d’inverno era coperta da uno strato di ghiaccio alto venti centimetri e questo bisognava romperlo. La cosa più importante di tutte era fare la legna. Ce ne voleva non solo per scaldarsi, ma anche per fare da mangiare, la cucina economica si prese solo negli anni Cinquanta.

Bisognava anche scaldare l’acqua per le bestie d’inverno, gli faceva male bere l’acqua ghiacciata. Allora si tagliavano i quercioli lungo i bordi dei campi o nel sottobosco. Poi si attaccavano le bestie al carro e si portava la legna a casa. Si dice che con la legna ci si riscalda quattro volte: a tagliarla, a caricarla, a portarla in casa e finalmente a bruciarla. È vero ancora oggi, non tutte le cose cambiano. Nel mese di gennaio si andava anche a una “palina”, cioè a un bosco di castagni, per tagliare i pali per la vigna, perché in primavera quelli rotti o marci si dovevano rimpiazzare. Bisognava scegliere i tronchi più dritti, tagliarli, segarli a misura, aguzzarli, sbucciarli e poi portarli a casa col carro. Mi piaceva molto lavorare nel bosco d’inverno. Non si prendeva freddo perché gli alberi ci riparavano anche dalla tramontana e a ogni modo eravamo sempre in movimento. All’ora della colazione si faceva un piccolo fuoco e mentre si mangiava spesso un pettirosso veniva a farci compagnia.

Durante l’inverno, come tutto l’anno, bisognava governare(1) gli animali. Per i buoi si trinciavano le rape nel trinciarape e poi se ne faceva il segato insieme al fieno. La macchina bisognava girarla a mano e faceva tanta polvere che ti veniva da tossire. Ogni giorno portavamo fuori le pecore e i maiali, a meno che ci fosse molta neve per terra. La sera si davano alle pecore le foglie secche, di pioppo o di olivo. Tutto l’anno bisognava ingegnarsi per trovare da mangiare per gli animali, perché non si poteva comprare niente. Dovevamo anche sconciarli(2), ma almeno era un lavoro che ti riscaldava. D’inverno i giorni erano corti, allora la sera si adoperava per mettere a posto gli arnesi per la prossima stagione.
Lavoravo accanto a Edoardo, così imparavo anch’io a fare tante cose. Per fare i manici delle zappe e delle vanghe si usava il legno di castagno. Si tagliava quando scemava la luna e poi si metteva da parte per un anno a stagionare. Così diventava duro, non si rompeva in nessuna maniera. Per gli arnesi che erano soggetti a uno sforzo particolare come i picconi, le scuri e gli aratri, si usava il legno di quercia. Per fare i gioghi si usava il legno di salice perché era non solo forte, ma anche leggero. Per fare gli scaffali dove si mettevano le forme di pecorino, si usava il legno di pioppo perché non si macchiava, mentre per fare gli zoccoli si usava l’ontano, quell’albero che cresce lungo i borri, perché era leggero e malleabile. Per fare una scala si prendeva un tronco di castagno dritto dritto. Si divideva in due con le zeppe e poi ci si facevano i buchi per i pioli, anche questi si facevano con il legno di castagno, e poi s’incastravano nei buchi già preparati, fissandoli meglio con qualche martellata energica.

Non si usavano mica i chiodi, perché quelli bisognava comprarli dal fabbro e a ogni modo era meglio non usarli perché spaccavano il legno. In una mezza giornata di lavoro si finiva una scala che durava per anni, senza spendere una lira. Quante scale ho fatto in vita mia! Ora si usano le scale di alluminio e devo ammettere che sono ancora più leggere, ma quando si leggono gli argomenti contro l’inquinamento, credo che le scale di castagno siano migliori, perché sono biodegradabili al massimo e quando sono vecchie si bruciano, allora servono anche a riscaldarci. D’inverno non si lavorava solamente, si poteva anche divertirsi e la neve ci dava una bella scusa, perché non si poteva lavorare comunque nei campi. Un anno la neve era alta mezzo metro. Eravamo un branco di giovanotti che abitava alle Muricce o vicino e un giorno si disse: “Con tutta questa bella neve perché non facciamo gli sci?”. Si aveva visto in un quaderno a scuola qualche disegno di sciatori, mica avevamo visto com’erano fatti gli sci per davvero. Comunque si andò a una palina per cercare un tronco fatto a verso, cioè largo quanto un piede e con la curva giusta come avevamo visto nelle figure. Trovato un tronco adatto lo portammo a casa e lo cuocemmo nel forno per poterlo spaccare meglio. Poi lo dividemmo in sei stecche, per fare tre paia di sci e ecco fatto! Bastava fare dei buchi in queste stecche, e legarle ai piedi con fili di ferro e eravamo pronti a sciare. Evidentemente non si avevano gli stivali, solo gli zoccoli, e questi si riempivano subito di neve, ma non ci importava, ormai eravamo bell’e gasati.

Dal Casino del Monte alla strada maestra la strada era tutta in discesa e era lunga un chilometro buono, allora faceva un’ottima pista da sci e noi naturalmente eravamo tutti campioni. Si faceva a turni a portare gli sci, ma nessuno riuscì a fare il percorso senza cadere. Dove la strada era incassata si riusciva a scendere abbastanza bene, ma dove non c’erano più i greppi si volava di fuori nei campi, con ogni caduta si guadagnava qualche livido e tante noccole sbucciate, andò bene che non si ruppe punt’ossi. Si seguitò a sciare per un paio di settimane perché nevicava ogni giorno. La gente di Mercatale cominciò a aspettarci in fondo alla discesa per vedere lo spettacolo e per scommettere chi sarebbe stato conciato peggio. Quanto divertimento, quante risate, quanti capitomboli! Vorrei mettere quegli sci a Tomba per vedere come si arrangia, scommetto che sarebbe cascato anche lui.

(1) Pietro usa questa parola nel senso di dare da mangiare, ma in altri contesti vuol dire anche pulire.
(2) (tosc.) Levare il letame fatto d’escrementi di bestie grosse. Notate anche concio, letame, e conciaia, luogo di raccolta del letame.

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