E’ stato caratterizzato da “un dolo di elevatissima intensità” il comportamento dei magnati dell’ Eternit: è quanto scrive il tribunale di Torino nelle motivazioni, depositate oggi, della sentenza di condanna a 16 anni di carcere per i due imputati.
E’ stato caratterizzato da “un dolo di elevatissima intensità” il comportamento dei magnati dell’ Eternit: è quanto scrive il tribunale di Torino nelle motivazioni, depositate oggi, della sentenza di condanna a 16 anni di carcere per i due imputati. Il documento, di 733 pagine, racconta le fasi del più grande dibattimento mai celebrato per questioni legate alla nocività dell’amianto: fra morti e malati sono stati presi in esame diverse migliaia di casi. I condannati sono il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier, chiamati in causa per i danni provocati dall’amianto lavorato in quattro stabilimenti italiani della multinazionale Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli. Secondo i giudici, i vertici dell’azienda erano a conoscenza dei problemi ma “nonostante tutto – si legge nelle motivazioni – hanno continuato e non si sono fermati nè hanno ritenuto di dover modificare radicalmente e strutturalmente la situazione al fine di migliorare l’ambiente di lavoro e di limitare per quanto possibile l’inquinamento”. Inoltre “hanno cercato di nascondere e minimizzare gli effetti nocivi”. In un’altra parte della sentenza i giudici si dicono del parere che per questi comportamenti “non può essere riconosciuta alcuna attenuante”. Gli interventi per migliorare le condizioni di lavoro negli stabilimenti italiani della Eternit sono stati “timidi” e con il solo fine dei realizzare maggiori guadagni, si legge ancora nelle motivazuioni della sentenza: “I timidi interventi che sono stati faticosamente e lentamente realizzati, peraltro unicamente sotto la gestione Schmidheiny, anche se indirettamente hanno prodotto un leggero miglioramento della situazione complessiva, sono stati comunque predisposti esclusivamente per finalità produttive, solo nell’intento di realizzare utili e guadagni maggiori, ma non certamente perchè ci si preoccupasse della salute dei lavoratori o perchè ci si attivasse per interrompere la lunga spirale di morti che era in atto”. Il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier sono stati riconosciuti colpevoli di disastro doloso, cioè volontario. Una catastrofe riassunta in 2.200 morti, 700 malati, seimila parti civili, sessantasei udienze, indennizzi per un centinaio di milioni (solo come acconto). E ai due imputati “non può essere riconosciuta nessuna attenuante”. Il processo racconta anche di ciò che accadeva a Cavagnolo (Torino), a Rubiera (Reggio Emilia) e a Bagnoli (Napoli), anche se una parte dei reati commessi in queste ultime due città è caduto in prescrizione. Lacune nella sicurezza, operai poco protetti, polvere dappertutto, storie di donne che si ammalavano per aver pulito a casa le tute da lavoro del marito o di giovani stroncati per aver fatto jogging vicino a una discarica. Il giudice, inoltre, denuncia non solo la Eternit, ma tutti i “grandi gruppi industriali dell’amianto nessuno escluso” che seguivano “in tempo reale” le ricerche mediche sui danni causati dal minerale (asbestosi, tumori) solo per “adottare adeguate contromisure per impedire l’interdizione dell’uso e della vendita” dei prodotti. Quella delle grandi aziende era una vera e propria “strategia” per “minimizzare e controinformare”, messa a punto in “incontri riservati chiamati tour de horizon”. Ai quali fra il 1977 e il 1981, parteciparono anche i delegati della Eternit.