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Plutonio nell’arcipelago della Maddalena

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Plutonio nell’arcipelago della Maddalena: nuovo allarme da Legambiente
Nuovo allarme in seguito all’indagine di Legambiente quando il sommergibile nucleare Hartford, della base americana di Santo Stefano, ha violentemente urtato gli scogli nell’arcipelago della Maddalena il 25 ottobre 2003, vennero attuati vari accertamenti per capire se ci fosse stata una fuoriuscita di materiale radioattivo. Le strutture di controllo del nostro Paese, dopo qualche mese, hanno escluso una contaminazione.
La società francese Criirad, tuttavia, rintracciò in almeno due campioni di alghe la presenza di quantità anomale di torio 234: questo si potrebbe definire il «primogenito» del decadimento dell’uranio 238, una sostanza che emette raggi alfa e ha un tempo di dimezzamento di oltre quattro miliardi di anni; il torio invece decade rapidamente, si dimezza in 24 giorni ed emette raggi gamma. Restava da spiegare, quindi, la presenza di alte concentrazioni di torio senza il «genitore» uranio.
In tutte le indagini compiute nell’arcipelago, però, non è stata mai considerata né verificata la presenza dell’elemento più pericoloso che si possa trovare in un reattore nucleare, nel combustibile e nelle scorie: il plutonio 239, un sottoprodotto che si forma dal bombardamento dell’uranio durante la generazione d’energia in un reattore nucleare o nell’esplosione di una bomba atomica. La sua presenza è considerata una prova certa della contaminazione prodotta da attività umane; questa però di solito non viene rilevata nelle analisi di «routine» perché durante il suo decadimento il plutonio emette solamente raggi alfa a bassa energia, senza emissione di raggi gamma. La maggior parte dei laboratori, invece, sono attrezzati soltanto per lo studio di raggi gamma e dispongono di strumentazioni limitate.
In un’indagine coordinata da Legambiente e condotta da un gruppo di esperti italiani e stranieri, con la collaborazione del Dipartimento di Scienze Ambientali Marine dell’Università della Tuscia, si è ricorso all’autoradiografia. Con questa tecnica, i campioni vengono messi a diretto contatto con pellicole sensibili solo ai raggi alfa di una particolare energia e per determinati periodi di tempo. L’autoradiografia ha un notevole vantaggio rispetto a tutte le altre metodologie di analisi: la soglia di rilevamento è di svariati ordini di grandezza più bassa rispetto a quella basata su strumentazione elettronica (non a caso il monitoraggio autoradiografico in zone a rischio è usato regolarmente per rilevare tracce di plutonio nelle urine dei bambini). Il programma di rilevamento, predisposto dalla biologa Lucia Venturi, responsabile scientifico di Legambiente, ha prelevato campioni nell’area della Maddalena, di Santo Stefano e di Palau.
Nei 14 campioni prelevati tra Lazio e Toscana non sono state trovate concentrazioni di tracce alfa al di sopra dei livelli di fondo, mentre negli altri 127, raccolti lungo le coste della Maddalena, di Caprera e Palau (e dal Mar Baltico), tutti i campioni hanno rivelato tracce alfa distribuite uniformemente sulle intere superfici esaminate, con concentrazioni varianti da 0 a 50 tracce (media di 8) a centimetro quadrato per ogni giorno di esposizione. In 29 campioni (il 23%) sono risultate concentrazioni di tracce a forma di stella che contengono da 10 a più di 500 tracce individuali.
Ad allarmare i tecnici sono soprattutto gli hot spots (letteralmente «punti caldi») rintracciati sui campioni di alghe: si tratta di frammenti di «carburante» nucleare, già irradiato e disperso nell’ambiente esterno, che potrebbero innescare gravi problemi di mutazioni genetiche a partire dai primi anelli della catena alimentare, causando danni irreparabili all’ecosistema della zona.
La distribuzione degli «hot spots» mostra forti concentrazioni lungo tutta la costa esaminata. I picchi massimi si trovano lungo le coste settentrionali e orientali della rada di Santo Stefano, tutti siti che si affacciano sulla base dei sommergibili nucleari nell’isola. Le alghe raccolte nei dintorni di Palau, invece, sono praticamente prive di tracce alfa. Nel caso della Maddalena, la loro presenza non si può spiegare con residui di inquinamento ambientale, come accade negli incidenti o negli esperimenti nucleari. I consulenti di Legambiente ritengono molto più plausibile un’origine locale, vista anche la distribuzione delle concentrazioni di tracce alfa lungo le coste dell’Arcipelago. Da qui, prende corpo l’ipotesi che essi provengano da perdite accidentali di minuscole quantità di radionuclidi dai reattori dei sommergibili atomici in transito o durante il loro rifornimento dalla nave-madre, quando si effettua la delicatissima operazione di «ricarica» del combustibile nucleare.
Legambiente ritiene perciò «assolutamente necessario che le acque, la flora e la fauna dell’arcipelago della Maddalena vengano sottoposte a un programma straordinario di monitoraggio continuo, per verificare gli effetti dalla presenza di questo tipo di radioattività, utilizzando tecniche analitiche adeguate».
Aggiunge il presidente dell’associazione, Roberto Della Seta: «Sarebbe altrettanto necessario prevedere anche un’indagine epidemiologica sugli abitanti dell’arcipelago e avviare un serio programma di dismissione della base nucleare Usa. C’è infatti una assoluta incompatibilità tra una tale struttura militare e un’area delicata e ad alta vocazione turistica come questa». Una richiesta che per il momento le autorità sanitario del nostro paese continuano ad ignorare, sostenendo l’assenza di qualsiasi rischio per la popolazione.

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