Al pari della raccolta differenziata, esiste un ampio ventaglio di invenzioni, scoperte, nuovi materiali giunti sulla scena con le vesti della “Soluzione”, ma presto rivelatesi inefficaci, non sufficienti, a volte persino controproducenti. Per parlarne servirebbe un libro intero, tante sono le invenzioni dell’ingegno umano, dal bruco che mangia la plastica, ai nuovi enzimi sintetizzatori, alle mille idee sul loro riutilizzo.
Una classe di soluzioni particolarmente in voga riguarda l’introduzione di nuovi materiali biodegradabili. Parliamo delle bioplastiche e di tutti i materiali che nell’immaginario di molti dovrebbero sostituire le sostanze plastiche nel packaging e nella produzione di oggetti usa e getta come piatti, bicchieri, cannucce, posate.
Per capire perché tutto questo ventaglio di soluzioni sono ugualmente insostenibili dobbiamo introdurre un altro concetto scomparso: l’energia grigia. Per energia grigia s’intende la quantità di energia “contenuta” in ogni oggetto, ovvero quell’energia che è stata necessaria per estrarre le materie prime, lavorarle, creare l’oggetto, confezionarlo, trasportarlo e – successivamente all’utilizzo – smaltirlo.
Questa energia contenuta in tutti gli oggetti che possediamo si ammortizza col passare del tempo: più a lungo usiamo un oggetto, più quel quantitativo di energia viene diluito. Se ci pensiamo con le attività che facciamo con le nostre mani il concetto sembra semplice. Immaginiamo di trovarci su un’isola deserta: se ci costruiamo una capanna, la nostra fatica iniziale verrà ripagata dal fatto che per molto tempo potremo dormire comodamente e in un luogo asciutto senza dover faticare ogni giorno per trovare un giaciglio di fortuna. Ma avrebbe senso costruire la stessa capanna se su quell’isola sapessimo di restarci solo una notte?
Quello che facciamo con l’usa e getta è praticamente questo: costruiamo capanne per dormirci una sola notte. Estraiamo il petrolio in Arabia Saudita, creiamo il piatto di plastica in Bangladesh, lo consumiamo in Italia, lo smaltiamo in Cina facendogli percorrere ad ogni passaggio migliaia di chilometri e consumare centinaia di litri di carburante. Tutto questo per un unico utilizzo. La differenza con la capanna è che l’energia impiegata non ce la mettono i nostri muscoli, di conseguenza tutto diventa meno intuitivo. Questo sistema infatti si basa sull’energia a buon mercato resa disponibile – almeno fino ad oggi – dal petrolio, che ci ha permesso di fare cose fino a ieri del tutto impensabili.
Ora che il petrolio a buon mercato inizia a scarseggiare e che le esternalità negative del suo utilizzo sono evidenti, il concetto stesso di usa e getta mostra tutta la sua insostenibilità, qualsiasi sia il materiale di partenza. Ovvio, utilizzare materiali compostabili è comunque meglio che usare la plastica, così come produrre oggetti a pochi chilometri da dove verranno utilizzati è meglio che fargli fare il giro del mondo. Ma l’energia grigia ci inchioda ad un verdetto inequivocabile: l’usa e getta è una contraddizione energetica.
Questo discorso si può estendere al di là degli oggetti usa e getta. L’idea di sostituire semplicemente un materiale con un altro lasciando invariati i processi di progettazione, produzione, trasporto, utilizzo e smaltimento dei prodotti è molto allettante perché ci evita la fatica di riprogettare e cambiare più in profondità, ma non funziona. Così come non reggono, sotto la lente d’ingrandimento delle leggi della termodinamica, le soluzioni tecnologiche. Né i progetti legati al recupero e riciclo artistico di materiali, che svaniscono di fronte ai numeri: quanta di tutta la plastica che produciamo potremo mai riutilizzare in iniziative di questo genere?
In generale l’impostazione dei “rifiuti come risorsa” non sta in piedi in un sistema in cui il successo è misurato sulla capacità di crescita. Il rischio è di creare aziende che per crescere avranno bisogno di quantità di rifiuti sempre maggiori, quindi in definitiva di produrre sempre più rifiuti, consumare sempre più risorse e aggravare il problema piuttosto che risolverlo.
Ciò non significa che queste soluzioni siano intrinsecamente sbagliate o dannose. Ci sono una discreta quantità di ecotecnologie legate al recupero, riutilizzo o smaltimento dei rifiuti che sono effettivamente molto utili. O iniziative di recupero e trasformazione artistica dei rifiuti molto affascinanti e suggestive, che possono svolgere un interessante ruolo educativo-culturale. Il punto è: in quale contesto sistemico le andiamo ad inserire? Sono tasselli in una transizione progettata verso una società a rifiuti zero o ci aspettiamo che siano esse stesse la soluzione al problema dei rifiuti?
Soluzioni che (forse) lo sono
Ricapitolando, né la raccolta differenziata, né i materiali alternativi, né le ecotecnologie sono soluzioni sufficienti a risolvere il problema. Quindi cosa possiamo fare? Partiamo da un concetto banale: i rifiuti in natura non esistono. In un ecosistema i rifiuti di un elemento sono i nutrienti di un altro. Ce li siamo inventati noi esseri umani, con una finzione che si addice di più al funzionamento lineare del nostro cervello che alla complessità di ciò che ci sta attorno.
Il termine economia deriva dal greco oikos e nomos e significa “regole della casa”. Abbiamo stabilito delle regole della casa lineari all’interno di una casa, il mondo, in cui tutto funziona in maniera circolare e complessa. Il processo produttivo classico inizia con l’estrazione dei materiali, prosegue con la produzione di oggetti, il trasporto, il consumo e termina con lo smaltimento dei rifiuti. È evidente che questa finzione può funzionare per un po’, ma prima o poi inevitabilmente si scontra con il limite fisico degli ecosistemi: limiti delle risorse estraibili in entrata e limiti legati a rifiuti e inquinamento in uscita.
Perciò qualsiasi soluzione sensata al problema dei rifiuti non può essere una soluzione solo al problema dei rifiuti.
Come afferma Annie Leonard in un articolo sul riciclo della plastica pubblicato sul Guardian, “se la tua casa è allagata perché hai lasciato il rubinetto aperto la prima cosa da fare non è eliminare l’acqua, è chiudere il rubinetto”. I rifiuti sono l’anello finale, il sintomo più visibile di una catena di produzione e consumo disfunzionale.
In questo senso uno degli ambiti di ricerca e sperimentazione più interessanti è quello dell’economia circolare. Il termine è spesso abusato e ad esso vengono attribuiti vari significati: molto spesso si parla di economia circolare intendendo un sistema in cui tutti i materiali vengono semplicemente riciclati al termine del processo. Una specie di raccolta differenziata e riciclo di tutto quello che produciamo, che però come abbiamo visto sarebbe decisamente controproducente.
Nella sua accezione più complessa e sensata invece, l’economia circolare è un insieme di processi economici e produttivi che mirano all’equilibrio con le risorse e le dinamiche degli ecosistemi del pianeta. Secondo una
ricerca dell’Agenzia europea per l’ambiente questi processi includerebbero una drastica riduzione nell’utilizzo delle risorse, una progettazione degli oggetti perché siano più durevoli, resistenti e riparabili, una riduzione degli imballaggi, una rilocalizzazione di molti processi produttivi, l’introduzione di meccanismi di simbiosi industriale in cui gli scarti di una filiera diventano materia prima di un’altra, il passaggio dall’uso individuale a quello condiviso di molti prodotti e servizi e infine una riduzione fino all’annullamento della produzione di rifiuti. In altre parole si tratta “semplicemente” di rendere tutti i nostri processi economici armonici con l’ecosistema in cui sono inseriti senza alterarne gli equilibri, estraendo solo le risorse che possono essere realisticamente rigenerate, cambiando il modo che abbiamo di progettare gli oggetti, impacchettarli, trasportarli, utilizzarli e rigenerarli.
Sembra semplice, ma è esattamente il contrario di come funziona il nostro sistema economico. A livello globale produzione e consumo sono situati agli antipodi: la prima nei paesi dalle economie più arretrate dove il costo del lavoro è più basso, il secondo negli stati occidentali e nelle economie emergenti dove maggiori sono le riserve di capitale. Gli oggetti sono progettati per durare poco grazie al meccanismo dell’obsolescenza programmata o percepita, in modo da preservare la crescita dei consumi. Le economie, le aziende, gli individui competono sul mercato per accaparrarsi maggiori risorse e raggiungere livelli di sviluppo sempre maggiori.
Dopo anni di indecisione l’Unione europea sembra voler imboccare con più convinzione la via dell’economia circolare. Il 18 aprile scorso è stato approvato dal parlamento di Strasburgo il Pacchetto sull’economia circolare. Al suo interno è presente la piramide rovesciata della gestione dei rifiuti che indica ai paesi membri le priorità in materia. Tali priorità, in ordine dalla più alla meno desiderabile, vedono in cima il non utilizzo, seguito dal riutilizzo (comprese misure volte ad una maggior riparabilità degli oggetti), dal riciclo, dal recupero di altro tipo (quasi sempre energetico, tramite incenerimento con recupero di energia) e infine smaltimento in discarica.
A ottobre la Commissione europea ha approvato una direttiva che metterà al bando dal 2021 diversi prodotti in plastica usa e getta: cotton fioc, posate, piatti, cannucce, bastoncini per cocktail, aste per palloncini, sacchetti di plastica molto leggeri, prodotti in plastica oxo-degradabile e contenitori per fast food fatti di polistirolo; oltre a imporre che il costo dello smaltimento degli imballaggi e della pulizia delle coste e dei mari sia a carico dei produttori.
Sempre di ottobre è la notizia della prima storica sentenza contro l’obsolescenza programmata, nella quale l’Agcom italiana ha multato pesantemente Apple e Samsung per questioni di incompatibilità fra nuovi software e “vecchi” smatphone.
Già dal 2015 esiste in Emilia Romagna una legge regionale sull’economia circolare, che traccia una roadmap e una serie di obiettivi da raggiungere entro il 2020, fra cui la riduzione del 20-25% della produzione pro-capite dei rifiuti urbani, la raccolta differenziata al 73%, il riciclaggio di materia al 70%.
In varie parti del mondo il legislatore si sta muovendo in questo senso. Tuttavia restano alcuni grossi punti di domanda. È possibile sviluppare un sistema circolare, con ridotto consumo di risorse e annullamento della produzione di rifiuti mantenendo regole del gioco competitive? È possibile far calare i consumi di beni materiali in un sistema basato sulla crescita? E in caso contrario, siamo disposti a cambiare le regole del gioco? E ancora, le persone, che nelle democrazie rappresentative sono anche elettorato, accetteranno di ridurre i propri consumi e adottare uno stile di vita più sobrio in nome dell’interesse collettivo?
Dalle risposte che nel prossimo futuro sapremo dare a queste domande dipenderà in buona misura se e come riusciremo a continuare a vivere su questo pianeta, l’unico che abbiamo. Come i pupazzi del film di animazione di Tim Burton dovremo rovinare un poco questo Natale della storia dell’umanità, l’epoca dei consumi, alla ricerca di una società meno perfetto e standardizzata, ma in definitiva più vera.
E-waste, un problema attuale
La crescita esponenziale delle nuove tecnologie, unita alla sempre più veloce obsolescenza dei dispositivi, ha generato una tipologia del tutto nuova di rifiuti: gli e-waste o rifiuti di apparecchiature elettriche o elettroniche (Raee).
Nel 2016 sono state prodotte 55 milioni di tonnellate di electronic waste (fra smartphone, computer, elettrodomestici, televisori, condizionatori e altro), di cui solo una piccola parte, circa il 20%, è stata riciclata con metodi efficienti e sicuri per l’ambiente. L’80% è finito in discariche come la straripante Agbogbloshie in Sudafrica, dove bambini e ragazzi li bruciano – intossicandosi – per estrarne i materiali di valore, oppure disperso nell’ambiente.
A meno di normative più stringenti sull’obsolescenza programmata dei dispositivi elettronici gli e-waste continueranno a crescere, costituendo un pericolo sempre maggiore per l’ambiente e la salute, oltre che un vero e proprio spreco di risorse rare e preziose come il rame, l’oro, il palladio e l’argento.
Uno sguardo ai comitati
Il problema dei rifiuti impatta sulla qualità dell’ambiente, sulla vita quotidiana e sulla salute di milioni di persone. Per questo sono molto diffusi, in Italia e nel mondo, i comitati di cittadini che si oppongono ai grossi impianti di smaltimento e trattamento come gli inceneritori e le discariche.
Nel nostro paese molti di questi comitati si sono riuniti per dare vita ad una grossa campagna contro il decreto Sblocca Italia, che fra le altre cose prevede la costruzione di 12 nuovi inceneritori che si aggiungerebbero ai 42 già in funzione sul territorio nazionale, definendoli “impianti strategici di preminente interesse nazionale”.
La campagna si chiama #Sbloccaitaliagameover ed è nata in seguito ad un pronunciamento del Tar del Lazio (del 25 aprile scorso) che riconosce delle incongruenze fra il decreto e le norme europee sul trattamento dei rifiuti (che privilegiano il recupero di materia rispetto a quello di energia) e rimanda il caso alla Corte di Giustizia Europea. Qualora quest’ultima confermasse la sentenza del Tar l’impatto della sentenza sarebbe enorme, dato che andrebbe applicata immediatamente in tutti i Paesi europei.
Come funziona la raccolta differenziata
In Italia la raccolta differenziata varia molto da comune a comune e viene finanziata attraverso un sistema di tassazione locale, con la partecipazione dei produttori. Infatti le aziende produttrici infatti unite nel Conai (Consorzio italiano imballaggi), in seguito a un accordo con l’Anci, l’associazione dei comuni, devono prendersi carico di parte dei costi di smaltimento dei loro imballaggi. Il Conai è a sua volta suddiviso in varie sottocategorie, come il Corepla che si occupa degli imballaggi in plastica, il Comieco che tratta carta e cartone e così via.
Esistono cinque categorie principali di rifiuti differenziati: carta e cartone, imballaggi in plastica, vetro e imballaggi in metallo, rifiuti organici, rifiuti non recuperabili, altre raccolte minori. Tuttavia per capire esattamente come ciascun materiale debba essere differenziato è essenziale informarsi sul sito del proprio comune di residenza oppure dell’azienda che gestisce la raccolta dei rifiuti.
Dopo la differenziazione i materiali vengono trasportati a stazioni di trasferimento, dove attraverso impianti di vario tipo vengono ulteriormente selezionati. Da qui sono trasportati nei centri di selezione, dove vengono ancora divisi, lavorati e infine trasformati in materie prime e inviati alle imprese che le utilizzano. In ciascuno di questi passaggi una percentuale variabile di rifiuti non idonea viene mandata ad incenerire o in discarica.
Il riciclaggio della carta
Anche il riciclo della carta presenta alcune criticità strutturali. Innanzitutto alcuni materiali che vengono assimilati alla carta durante la fase di differenziazione necessitano di trattamenti piuttosto lunghi e generano materiale di scarto. È il caso del tetrapak, fatto di strati sovrapposti di carta, plastica e alluminio, di cui sono composti i contenitori di molte bevande come succhi di frutta e latte. Il tetrapak ha bisogno di un primo trattamento in cui viene tritato e messo a macerare per recuperare una percentuale di carta. Lo scarto di questo processo è difficile da trattare e viene generalmente inviato ad incenerimento o in discarica.
La carta che invece si riesce a recuperare per essere rigenerata affronta una serie di passaggi piuttosto variegati (e diversamente impattanti in termini energetici e chimici) a seconda della materia prima seconda che si vuole ottenere. Alcune carte riciclate si ottengono previa uno sbiancamento chimico con sostanze nocive per l’ambiente, altre vengono mischiate con nuova cellulosa o altri materiali. Altre invece sono ottenute in maniera naturale, senza ricorrere a processi di questo tipo. Di conseguenza l’impatto della carta riciclata dipende molto dal tipo di prodotto che scegliamo. Alcuni tipi di carta riciclata hanno un impatto complessivo (consumo della risorsa + impatto energetico + impatto chimico) molto inferiore rispetto alla carta vergine, mentre in altri casi l’impatto potrebbe essere persino superiore.
Le parole chiave dell’economia circolare
❖ Simbiosi industriale. I rifiuti di una filiera produttiva diventano materia prima per un’altra.
❖ Rilocalizzazione. I processi di produzione consumo e smaltimento vengono in buona parte rilocalizzati per ridurre al minimo i trasporti e facilitare la simbiosi industriale.
❖ Resistenza. Gli oggetti sono progettati e costruiti per durare il maggior tempo possibile.
❖ Riparabilità. È importante che gli oggetti siano facilmente riparabili e smontabili, in modo che non sia necessario cambiare l’intero oggetto in caso di rottura di una sua parte.
❖ Condivisione. Molti beni e servizi vengono progettati per essere condivisi fra più persone, in modo da ottimizzarne l’utilizzo.
❖ Priorità. L’Unione europea ha definito una piramide dell’economia circolare in cui le seguenti azioni sono ordinate dalla più alla meno desiderabile: 1. Non usare e prevenire; 2. Riusare; 3. Recuperare materia (riciclare); 4. Recuperare energia (incenerire); 5. Smaltire (in discarica).
Obsolescenza programmata e percepita
Sui primi del Novecento i produttori di lampadine ad incandescenza del mondo avevano un problema: le lampadine duravano troppo ed il mercato era in rapido esaurimento. Così nel 1924 si ritrovarono a Ginevra e decisero di fondare il Cartello Phoebus, in cui si accordavano per ridurre la durata di vita delle lampadine vendute al dettaglio dalle 2500 ore stimate di allora ad un massimo di 1000 ore.
Nasceva così l’obsolescenza programmata, che sarebbe stata adottata da molti altri settori e avrebbe accompagnato fino ad oggi la crescita della nostra società. Il concetto è semplice: per alimentare la crescita dei consumi è necessario che gli oggetti si rompano o diventino poco efficienti in tempi relativamente brevi.
A fianco dell’obsolescenza programmata esiste poi un secondo tipo di obsolescenza, detta percepita, che non dipende da fattori fisici ma percettivi. È quel tipo di obsolescenza legata alle mode, studiata nelle strategie di marketing, che fa sì che alcuni oggetti (capi di abbigliamento, smatphone ma anche tanti altri) sebbene perfettamente funzionanti siano percepiti come vecchi e quindi sostituiti.
La pratica dell’obsolescenza programmata è uno dei motori della crescita economica e dei consumi, ma causa enormi sprechi di risorse. Alcune normative recenti sembrano volervi mettere un freno: nelle recenti direttive europee sull’economia circolare e sull’ecodesign sono incluse alcuni forti disincentivi. Così come la sentenza dell’Agcom del 24 ottobre che multa i colossi Samsung e Apple per l’obsolescenza dei loro hardware rispetto agli aggiornamenti del software potrebbe creare un interessante precedente. Che anche l’obsolescenza programmata stia diventando obsoleta?
Cinque buoni propositi per l’anno nuovo
❖ Essere molto critico negli acquisti, valutando se qualcosa mi serve o meno: talvolta andiamo in giro e perdiamo giorni a cercare il prezzo migliore per qualcosa che passerà il resto dei suoi giorni in un cassetto. Solitamente se qualcosa ti serve realmente la compri, se “costa troppo” e puoi farne a meno significa che realmente non ti serve
❖ Impegnarmi nel produrre meno rifiuti possibile: come consumatori (o coproduttori) possiamo orientare la produzione delle aziende, quindi se acquisto prodotti che producono meno rifiuti e inquinamento (ad esempio alla spina) incentivo cicli produttivi più ecologici.
❖ Eseguire la raccolta differenziata dei rifiuti che non posso fare a meno di produrre, cercando di riusare io stesso gli oggetti il più possibile.
❖ Non essere critico o giudicante verso chi non ha la mia stessa sensibilità: io voglio un mondo più pulito e lo realizzo qui, non devo convincere una persona che non lo vuole fare; io porto l’esempio, non creo un ulteriore scontro, ho fiducia nei miei simili. Come ho capito io, se vogliono, possono farlo anche gli altri.
❖ Valutare la riparazione dei dispositivi non funzionanti piuttosto che comprarli nuovi, anche se il prezzo del nuovo potrebbe sembrare allettante e il costo della riparazione alto, per il pianeta non è mai così.
Letture utili
Sul tema dei rifiuti e della corretta educazione all’importanza della raccolta differenziata è uscito per i tipi di Terra Nuova Edizioni
“Il segreto di patata lessa” , una splendida storia illustrata per insegnare ai bambini che i rifiuti, se differenziati, possono diventare una risorsa.
Con un linguaggio simpatico e divertente,
Il segreto di Patata Lessa spiega l’importanza di differenziare in modo corretto i rifiuti. È Patata Lessa a far scoprire a Mino e Mirella, i due bambini protagonisti della storia, che un sacchetto di rifiuti si può trasformare in prezioso compost, utile per la crescita e il nutrimento di nuove piantine.
È questo il “segreto” di Patata Lessa: la cura dell’ambiente e la salvaguardia del Pianeta sono nelle nostre mani. Sono i nostri piccoli gesti quotidiani a fare la differenza.