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Rifiuti: tutto quello che non sai e non vorresti sapere (soprattutto a Natale)

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Il problema dei rifiuti è profondamente connesso con la struttura stessa della nostra società, con i suoi meccanismi di produzione, imballaggio, trasporto e consumo delle merci, con la nostra vita di tutti i giorni e le nostre abitudini. Inizia oggi un viaggio-inchiesta in tre puntate che accompagnerà il lettore attraverso dati, riflessioni, informazioni.
Nel film d’animazione diventato di culto “Nightmare before Christmas” dei buffi pupazzi provenienti dal paese di Halloween rapiscono Babbo Natale e lo portano nel loro mondo. Il loro ingenuo obiettivo è festeggiare il Natale, ma in un mondo fatto di pipistrelli, ragnatele e bambole assassine nessuno ne coglie lo spirito e il piano naufraga miseramente.
Rivedendo il film ad anni di distanza si iniziano a coglierne alcuni aspetti curiosi, che suggeriscono una lettura probabilmente lontana dalle intenzioni di Tim Burton: nell’allegro, seppur macabro, paese di Halloween non esistono rifiuti, tutto si rammenda, ricuce, rappezza. I giocattoli non sono mai nuovi, spesso sono brutti e sbilenchi ma al tempo stesso unici, così come le emozioni degli eccentrici protagonisti. Nel paese del Natale invece si respira una felicità molto più standard: le famiglie si assomigliano, i regali anche, ed è tutto un profluvio di pacchetti, luci e colori. È il Paese di Halloween, con le sue tinte cupe, il lato oscuro del Natale o è il Natale il lato oscuro del Paese di Halloween?
I simpatici pupazzi del Paese di Halloween fanno luce sulle contraddizioni del Natale, a rischio di rovinarlo, ma in definitiva rendendolo più vero. Allo stesso modo in questo articolo ci immergeremo in un tema, i rifiuti, che è molto legato alle festività natalizie e alla società dei consumi e ne rappresenta forse più di altri il lato oscuro. Anche nel nostro caso c’è il rischio di rovinare lo spirito del Natale ma si accompagna alla speranza che si riemerga da questo “bagno di realtà” un po’ più consapevoli dei problemi che ci circondano e delle loro possibili soluzioni.

Le dimensioni del problema

Sebbene le festività natalizie siano uno dei momenti in cui viene prodotta una maggiore quantità di scarti e l’impronta ecologica pro capite sale vertiginosamente, il problema dei rifiuti non si può certo ridurre a questi pochi giorni dell’anno. Al contrario, esso è profondamente connesso con la struttura stessa della nostra società, con i suoi meccanismi di produzione, imballaggio, trasporto e consumo delle merci, con la nostra vita di tutti i giorni e le nostre abitudini.
Secondo la World Bank nel 2016 abbiamo prodotto nel mondo oltre 2 miliardi di tonnellate di rifiuti: è come se ogni giorno riempissimo di rifiuti 20mila piscine olimpioniche o 300 Colossei. La mappa di questa immane produzione non è uniforme: in cima alla lista troviamo le economie più grandi del pianeta. Il Nord America, l’Europa occidentale, la Cina, ma anche alcuni paesi mediorientali ed economie emergenti. I paesi ad alto reddito, che rappresentano solo il 16% della popolazione mondiale, generano più di un terzo dei rifiuti complessivi.
Quando pensiamo ai rifiuti, poi, ci vengono in mente soltanto quelli che gettiamo ogni giorno nei sacchi della spazzatura. In realtà i rifiuti urbani – così vengono chiamati – ne rappresentano una piccola parte, sebbene molto significativa. In Italia ad esempio i circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani sono meno del 20% del totale. Il restante 80% è composto da rifiuti speciali derivanti perlopiù da attività edilizia e industriale (135 milioni di tonnellate annui). Senza parlare poi di quei rifiuti che non consideriamo tali – come le emissioni di sostanze climalteranti, che chiamiamo inquinamento – o che neppure consideriamo – come la gomma degli pneumatici che si consuma per via dell’attrito con l’asfalto, le pastiglie dei freni – e così via.
A livello globale la produzione di rifiuti non accenna a diminuire, anzi. Se nel corso del secolo scorso la diffusione del benessere ha portato ad una decuplicazione della produzione mondiale, alcuni ricercatori stimano che entro il 2025 la cifra raddoppierà rispetto ad oggi, trainata dalla crescita dei paesi emergenti e dall’aumento della popolazione urbana, per raggiungere il picco di produzione dopo il 2100. Sebbene queste proiezioni vadano prese con le pinze perché non tengono conto dei limiti fisici del sistema (limiti di risorse, termodinamici, ecosistemici), nondimeno la situazione resta critica.
Tutti i numeri fin qui elencati forse non ci diranno molto: sono talmente enormi che nemmeno facendo degli esempi il nostro cervello riesce a rappresentarli correttamente. Se vogliamo farci un’idea possiamo dare uno sguardo alle opere dell’artista Chris Jordan, che crea immagini suggestive a partire dalla giustapposizione grafica di centinaia migliaia di rifiuti, in un numero corrispondente a – di volta in volta – i sacchetti di plastica utilizzati nel mondo ogni secondo, le bottigliette gettate in mare, il numero di specie estinte. Ma se vogliamo riassumere la situazione utilizzando un’unica locuzione potremmo dire: “abbiamo un grosso problema”.

Un problema che lungi dall’essere solo una questione di gestione degli scarti è qualcosa di intimamente connesso con il funzionamento di tutto il sistema. Ha a che fare con il consumo eccessivo di risorse che estraiamo dal pianeta, riguarda come progettiamo i prodotti, i trasporti e gli imballaggi, la quantità di oggetti che usiamo e la rapidità con cui li sostituiamo.

E se approfondiamo ancora scopriamo legami con il crollo della biodiversità, gli sprechi energetici, i cambiamenti climatici. Si stima che nel solo 2016 siano state generate dal trattamento e dallo smaltimento dei rifiuti 1,6 miliardi di tonnellate equivalenti di anidride carbonica, pari a circa il 5% delle emissioni globali.
Ci sono poi alcune tipologie di rifiuti che per la loro natura sono particolarmente insidiosi. Alcuni sono tossici e dannosi per la salute e se non stoccati correttamente rischiano di contaminare l’ambiente in cui viviamo, come gli scarti delle industrie chimiche, le scorie radioattive. Altri sono delle new entry, frutto della crescita esponenziale dell’industria tecnologica, come i cosiddetti e-waste.
Fra tutti però ve n’è uno che conosciamo molto bene, il cui impatto in passato è stato sottovalutato e che oggi è causa di alcuni fra i principali problemi: la plastica.

In un mare di plastica

“La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni” è una citazione attribuita a vari pensatori, fra cui Karl Marx. Chiunque l’abbia detta per primo è vissuto molti anni se non secoli addietro e non poteva certo immaginare che sarebbe stata perfetta per descrivere la parabola della plastica.
La plastica nasce proprio per via di una buona intenzione: viene inventata dopo che nel 1860 una fabbrica di New York aveva messo in palio un grosso premio a chi inventasse un materiale per sostituire l’avorio nella produzione delle palle da biliardo. Quindi, in pratica, per salvare la vita agli elefanti. Nel corso del XX secolo la plastica si diffonde a ritmi esponenziali sostituendo a molti dei materiali fin lì utilizzati.
Oggi la plastica è una presenza costante e quotidiana nelle nostre vite: dalle bottiglie, alle stoviglie, agli abiti che indossiamo, fino ad arrivare ad automobili, articoli sanitari, dispositivi tecnologici. Confeziona e sigilla praticamente ogni singolo oggetto che acquistiamo. È talmente economico produrre e trasportare la plastica che essa è stata, a partire dagli anni Sessanta, uno dei principali elementi alla base della diffusione degli oggetti usa e getta.
Ma qual è il segreto di questo successo? La plastica presenta – o almeno così sembrava fino a qualche tempo fa – alcuni indiscutibili vantaggi rispetto agli altri materiali: oltre ad essere economica è molto leggera, si adatta agli utilizzi più svariati e non è soggetta all’erosione di agenti organici.
Quest’ultima caratteristica, la sua non biodegradabilità, che la rende inattaccabile dai microorganismi, si è rivelata una potente arma a doppio taglio, giacché la rende al tempo stesso una sostanza quasi eterna. I tempi di degradazione della plastica oscillano tra i cento e i mille anni: significa che se i Vichinghi ai tempi della loro invasione dell’Europa avessero usato bottiglie di plastica probabilmente molte di queste sarebbero con noi ancora oggi. Significa anche che quasi ogni singola molecola di plastica mai prodotta – a meno che non sia stata bruciata – esiste ancora da qualche parte in natura. Quando ho incontrato Sian Sutherland, co-fondatrice della campagna “A plastic Planet”, una delle prime cose che mi ha detto è stata: “Abbiamo creato oggetti usa e getta con un materiale praticamente indistruttibile, siamo dei geni!”. Come darle torto.
Nel gennaio 2018 uno studio apparso nei “ Proceedings of the National Academy of Sciences” ha mostrato la drammatica situazione dell’inquinamento di plastica che abbiamo creato a livello mondiale: dagli anni Cinquanta del secolo scorso ad oggi abbiamo prodotto 8,3 miliardi di tonnellate di plastica, passando da una produzione mondiale di 15 milioni nel 1964 agli oltre 310 milioni odierni. Ad oggi il 79% di tutta la plastica mai prodotta si trova nelle discariche o in ambienti naturali, il 12% è stato incenerito e solo il 9% riciclato. Significa che circa 6,3 miliardi di tonnellate si trovano da qualche parte là fuori: è come se ogni singolo abitante della Terra trascinasse con sé circa una tonnellata di plastica. Stando ai trend attuali la plastica potrebbe raggiungere i 34 miliardi di tonnellate nel 2050 di cui almeno 12 costituirebbero rifiuti sparsi in tutti gli ambienti.

Milioni di tonnellate negli oceani

Un problema particolarmente delicato è rappresentato dalla plastica in mare. Ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani del mondo ed oggi si stima che ve ne siano disperse più di 150 milioni di tonnellate. Se non si agirà per invertire la tendenza gli oceani avranno nel 2025 una proporzione di una tonnellate di plastica per ogni 3 tonnellate di pesce mentre nel 2050 ci saranno, in peso, più plastica che pesci.
Le correnti oceaniche tendono ad accumulare questa enorme massa di plastica in alcuni punti specifici. È ormai cosa nota ai più l’esistenza di una enorme isola di plastica nel vortice del Pacifico del Nord, la cosiddetta “Great Pacific Garbage Patch” che misura, secondo le ultime stime pubblicate sulla rivista Scientific Report, ben 1,6 milioni di km2, circa cinque volte l’Italia. Ciò che non tutti sanno è che non si tratta di un’isola vera e propria, tant’è che dai satelliti risulta quasi invisibile. Infatti solo il 10% della plastica galleggia in superficie, mentre il 90%, affonda o fluttua sotto il pelo dell’acqua: inoltre – e questo è l’aspetto più pericoloso – il sale, le onde e gli agenti atmosferici tendono a sminuzzare gli oggetti di plastica in particelle grandi meno di un millimetro. Questa microplastica, che contiene sostanze chimiche dannose provenienti dai processi industriali, viene confusa col plancton dai pesci, ed entra alla base nella catena alimentare.

In altre parole, più che di un’isola stiamo parlando di una sorta di pulviscolo di plastica ad alta densità. Per questo motivo molti scienziati si sono mostrati scettici verso soluzioni tecnologiche come quella proposta dal giovane olandese Boyat Slat e dalla sua fondazione Ocean Cleanup, che vuole ripulire gli oceani attraverso un sistema a braccia galleggianti che raccoglierebbero la plastica sfruttando le correnti oceaniche. Tale sistema, secondo gli esperti, oltre a non essere efficace perché non in grado di raccogliere particelle inferiori al millimetro rischia di danneggiare gravemente il plancton che vive in superficie.

Ma non è solo un problema per il mare. La plastica è ormai ovunque: se ne trova nei ghiacci artici e sulle vette dell’Everest, mentre nelle isole Hawaii sono state individuate rocce definite plastiglomerato perché formate da sedimenti di plastica. Senza accorgercene la ingeriamo quotidianamente attraverso il cibo che mangiamo (pesce, sale marino) e l’acqua che beviamo (sia in bottiglia che del rubinetto). Un recente studio effettuato dai ricercatori dell’Agenzia dell’Ambiente austriaca ha rilevato numerose tracce di plastica nelle feci umane, possibile causa di varie malattie gastrointestinali. Secondo i ricercatori circa la metà della popolazione mondiale potrebbe averne.
È talmente stretto il legame fra la nostra civiltà e l’utilizzo della plastica che alcuni ricercatori hanno iniziato ad indicare questa epoca come “plasticocene”.
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Letture utili

Sul tema dei rifiuti e della corretta educazione all’importanza della raccolta differenziata è uscito per i tipi di Terra Nuova Edizioni “Il segreto di patata lessa”, una splendida storia illustrata per insegnare ai bambini che i rifiuti, se differenziati, possono diventare una risorsa.

Con un linguaggio simpatico e divertente, Il segreto di Patata Lessa spiega l’importanza di differenziare in modo corretto i rifiuti. È Patata Lessa a far scoprire a Mino e Mirella, i due bambini protagonisti della storia, che un sacchetto di rifiuti si può trasformare in prezioso compost, utile per la crescita e il nutrimento di nuove piantine.
È questo il “segreto” di Patata Lessa: la cura dell’ambiente e la salvaguardia del Pianeta sono nelle nostre mani. Sono i nostri piccoli gesti quotidiani a fare la differenza.

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