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Tingere al naturale

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Le tinture naturali, oltre a ridurre il disastroso impatto ambientale dei coloranti di sintesi, rappresentano una valida soluzione contro la crescente diffusione delle dermatiti. Il chi e come della tintoria ecologica in Italia.
Tutto iniziò con la preparazione in un laboratorio inglese della «porpora di anilina», il colore viola. Era il lontano 1856, data che segna l’inizio dell’inesorabile declino dei colori naturali a favore di quelli sintetici, più semplici da usare e soprattutto più economici, con un unico grande limite: l’elevata tossicità, di cui nessuno si preoccupò per almeno un secolo. Fu così che gradualmente le tinture naturali, ottenute in gran parte dalle piante tintoree, vennero soppiantate, mettendo in crisi oltre che l’ambiente anche l’economia di intere regioni che per secoli avevano basato la loro ricchezza sulla coltivazione del guado, della reseda e della robbia.
Paradossalmente, la rivalutazione della millenaria tradizione tintoria è partita, un secolo dopo, proprio dalla Cotton Belt, la grande area agricola del Texas, occupata da immense coltivazioni intensive di cotone. Proprio lì, alla fine degli anni ‘70, i problemi di salute pubblica e di degrado ambientale legati alle pratiche agricole raggiunsero un livello talmente preoccupante da richiedere l’intervento del governo federale. Un processo che oltre a favorire lo sviluppo della coltivazione biologica del cotone, portò anche alla riscoperta dei processi tradizionali della tintura naturale: una controtendenza che si è diffusa ben presto nel resto degli Stati Uniti e successivamente in Europa, particolarmente in Germania.
«Negli ultimi anni – spiega la professoressa Luciana Angelini del Dipartimento di Agronomia e Gestione dell’Agroecosistema dell’Università di Pisa – anche in Italia si sta assistendo ad un crescente ritorno di interesse per i coloranti naturali vegetali estratti da piante come il guado, la reseda e la robbia, da cui fino al XIX secolo, si estraevano i tre principi coloranti fondamentali: blu-indaco, rosso e giallo».
«Risolti gran parte dei problemi agronomici di coltivazione e tecnologici per l’estrazione dei colori – è ancora Angelini a parlare – il più grande ostacolo per l’ulteriore sviluppo della tintoria naturale sono i costi, ancora troppo elevati: c’è bisogno di investire in ricerca per ottimizzare i processi di estrazione al fine di ottenere materia prima di qualità e formulazioni adatte per le diverse applicazioni, da quelle tessili, alle pitture, alla cosmesi naturale.
«Oggi in Italia – spiega Roberto Salvini di Arcobaleno, una delle pochissime aziende italiane specializzate nella tintura con prodotti naturali – i coltivatori di piante tintoree sono ancora pochissimi, pertanto il loro prezzo di vendita è ancora molto elevato, tanto da costringere le aziende tintoree a rivolgersi ad altri paesi europei e sempre più spesso africani o asiatici (soprattutto Cina), dove la tradizione della tintura naturale è ancora diffusa». «Gli agricoltori italiani – aggiunge ancora Salvini – sanno ancora molto poco delle piante tintoree e delle potenzialità del settore in termini di rivalutazione dei terreni marginali, posti di lavoro e tutela ambientale.»
Secondo la Professoressa Angelini l’informazione e la certificazione sono due aspetti fondamentali per promuovere i colori vegetali naturali. Sul mercato infatti, sono presenti diversi colori vegetali naturali di origine extraeuropea, caratterizzati, in certi casi, da prezzi relativamente più contenuti, ma spesso di bassa qualità o “tagliati” con colori di sintesi. La tracciabilità della materia prima è assolutamente un must per le aziende coinvolte nel settore del tessile ecologico e può aprire la strada alla coltivazione delle piante tintorie con dei benefici per i produttori agricoli che rappresentano attualmente l’anello più debole della filiera. La priorità che ci stiamo dando a livello internazionale, sia all’interno del Gruppo di ricerca Spindigo dell’ Unione Europea (www.spindigo.net) che nel comitato di esperti della Filière Colorants Natureles – è ancora Angelini
a parlare – è quello di definire le prerogative del colore vegetale naturale, una sorta Cahier des Charges. A questo scopo si stanno predisponendo dei disciplinari di produzione, di estrazione e di utilizzazione all’interno di un processo di labelling ecologico. Questo processo di autoregolamentazione e di certificazione si pone come duplice obiettivo di aumentare il valore aggiunto della materia prima colorante e di garantire al consumatore la sicurezza del prodotto e delle tecniche impiegate all’interno della filiera.
In realtà, i coloranti di sintesi presentano elevati vantaggi economici e pratici: costano poco ed hanno una tenuta di colore molto elevata.
Tuttavia, come è stato già sottolineato, molti di essi sono altamente tossici per l’uomo e l’ambiente e alcuni, come l’anilina e i derivati da catrame e petrolio e alcune ammine aromatiche (come la benzidina e la betanaftilamina), sono ritenute cancerogene. Oltre ai principi coloranti veri e propri, vanno presi in considerazione anche i cosiddetti «carrier», composti chimici ausiliari utilizzati per migliorare la velocità e l’assorbimento della tintura, e i «sequestranti», impiegati per bloccare i metalli pesanti che potrebbero alterare la fase di tintura.
Tutte queste sostanze, oltre a presentare un pesante impatto ambientale nella fase di produzione, lasciano pericolosi residui sui tessuti e quindi vengono inevitabilmente assorbiti dall’organismo attraverso l’epidermide, dando luogo nei soggetti più suscettibili a reazioni allergiche e dermatiti. Reazioni tanto più pericolose, quanto più fragile è il sistema immunitario di chi assorbe i residui coloranti. Ecco perché, in tutti i paesi industrializzati, e in particolare Italia e Portogallo, le indagini epidemiologiche confermano un’impressionante crescita della Dermatite atipica da contatto (Dac) provocata dagli indumenti trattati con i processi di tintura convenzionale. In particolare, in Italia la dermatite da indumenti rappresenta circa il 10% delle Dac extraprofessionali e mostra un preoccupante trend di crescita.
Le principali sostanze ritenute responsabili della Dac da indumenti risultano in assoluto i cosiddetti «coloranti dispersi» (il nome deriva dalla modalità di tintura della fibra, per dispersione) e in particolare quelli di tipo azoico e antrachinonico.
Oltre ai danni per l’ambiente e ai rischi per la salute, i colori di sintesi hanno causato nel tempo anche l’alterazione della percezione del colore. In realtà, la loro «fissità» ed elevata «identicità» ha eliminato dai colori la «vita», cioè le tracce del tempo, della luce, dell’acqua e dell’usura. «Un capo tinto con pigmenti naturali – afferma Roberto Salvini – è caratterizzato da un colore che «vibra» e lo si riconosce mettendo in tensione tra le mani un pezzo del tessuto: si nota una patina di una tonalità diversa, un’anima leggermente più chiara che solo nell’insieme può prendere colore, mentre i colori sintetici vengono assorbiti totalmente e all’interno delle fibre». «Trattandosi di qualcosa di vitale – spiega ancora Salvini – il pigmento naturale va rispettato, trattato con morbidezza. Se lo maltratti, te la fa pagare; se invece lo tratti bene, cioè con una lavorazione adeguata, ti dà soddisfazione.»
Se è chiaro che i colori di sintesi vengono ottenuti da derivati del petrolio o dai metalli pesanti, come si arriva alle tinture naturali? Le materie prime sono le stesse utilizzate dall’uomo agli albori della civiltà per colorare i tessuti: alcuni (per la verità pochi) minerali (allume di potassio, carbonato di potassio e carbonato di sodio, tutti impiegati più che altro come mordenti); qualche prodotto d’origine animale come la cocciniglia (un insetto molto comune, da cui si estrae uno splendido colore rosso) o la porpora (ricavata da molluschi appartenenti al genere Murex) e soprattutto numerose piante, le cosiddette «piante tintoree» dalle cui radici, foglie, fiori, semi o cortecce si possono ottenere i colori più diversi.
Tra queste ritroviamo quasi tutte le tintoree della tradizione europea (guado, robbia, reseda e cartamo) e alcune d’origine esotica come l’indaco o il legno del Brasile. In realtà, sono molto numerosi i vegetali da cui è possibile ottenere delle belle colorazioni. Con la cipolla per esempio si può tingere in marrone o verdino, a seconda dei tipi; con il melograno in arancione, con le foglie di sambuco in giallo-verdognolo e con la curcuma in verde. Il riccio di castagna permette di ottenere un bel color nocciola intenso.
Quest’ultimo, oltre ad essere di facile reperimento ha anche il vantaggio di non richiedere la mordenzatura, cioè il trattamento preliminare dei filati con sali minerali, necessario per stabilizzare la maggior parte dei coloranti naturali.
Purtroppo accanto ai numerosi aspetti positivi, i prodotti tintori naturali presentano anche un’elevata difficoltà di lavorazione. Proprio per il fatto di essere «materia viva» è difficile ottenere dalle piante tintoree una perfetta omogeneità cromatica. La resa in colore di una radice in molti casi varia enormemente a seconda della provenienza, età, periodo di raccolta e naturalmente dal processo d’estrazione utilizzato.
Per rispondere ai numerosi interrogativi aperti dall’impiego delle piante tintoree, negli ultimi anni sono stati varati numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali che vedono in prima linea il Dipartimento di Agronomia e Gestione dell’Agrosistema dell’Università di Pisa: si va dalla valutazione delle caratteristiche biochimiche e agronomiche, alla definizione delle tecniche di produzione sostenibili, alle metodologie di estrazione e delle possibilità di mercato.
Secondo Rossella Cilano dell’Associazione Tinture Naturali, oltre al recupero delle conoscenze tradizionali, c’è la necessità di svolgere una continua ricerca sulle tecniche di tintura e sulle materie prime impiegate. «Inoltre – ricorda Paolo Foglia, responsabile Aiab «prodotti tessili biologici» – dal 1° gennaio 2006, con la chiusura dell’accordo multifibre (OMC) è molto probabile che nel mercato del tessile, i cui addetti in Italia sono stimati in circa un milione (pari al 30% del settore europeo), si scatenerà una concorrenza spietata.
Tanto che gli esperti prevedono un drastico ridimensionamento del settore. In questo quadro poco rassicurante, il tessile naturale potrebbe rappresentare un valido sbocco per rianimare un comparto già oggi vittima di una progressiva perdita di addetti e competizione sul mercato internazionale.»
Nonostante le rosee prospettive, attualmente le possibilità di applicazione delle tinture naturali sono ancora molto limitate, basti pensare che fino ad oggi le aziende tessili certificate secondo il disciplinare Aiab per i tessili biologici sono solo cinque. «Ecco perché – afferma Roberto Salvini – noi da anni lavoriamo soprattutto anche per il tessile convenzionale che sempre di più appare interessato alle tinture naturali. D’altra parte l’elevata differenza di costo (mentre una tintura con colori di sintesi costa 2,50 Euro al chilo, con i colori naturali si arriva fino a 25 euro al chilo), limita il ricorso al naturale ai filati più preziosi come: cashmere, alpaca e seta.» La speranza è che la maggior diffusione delle piante tintoree, grazie al recupero della tradizione e all’aiuto della ricerca, possano ridurre drasticamente i costi di produzione facilitando così l’impiego dei tessuti naturali.

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