In un mondo in continuo movimento, dove sempre «si va a vedere», l’esperienza di chi invece sta dall’altra parte e accoglie chi arriva, acquista un’importanza spesso nascosta: è come stare in piedi sulla cattedra nell’Attimo Fuggente. Questi miei primi 25 anni di vita hanno avuto il privilegio di questa prospettiva: sono nato e cresciuto in un agriturismo, uno dei primi in Toscana, creato quasi per caso da chi ha contribuito a coniare un termine oggi così comune.
Mia madre Jenny è inglese; nei primi anni sessanta è venuta in Italia per insegnare la propria lingua a Firenze. In seguito, si innamorò di una casa colonica nel Valdarno, vista durante una passeggiata a cavallo; riuscì a prenderla in affitto e poi pian piano ad acquistarla: a quei tempi i prezzi erano accessibili. Mia madre aveva un forte desiderio di vivere in campagna, ma gli mancava un’attività per rendere economicamente possibile questo sogno; così pensò ai cavalli. Riuscì a procurarsene qualcuno e nel 1969 nacque Rendola Riding. La casa allora non aveva un bagno né il riscaldamento; l’attività si limitava all’equitazione ed i cavalli stavano a piano terra, dove non molto tempo prima i contadini tenevano i buoi e i maiali.
Poco dopo arrivò Pietro, che era nato e cresciuto come contadino in un podere vicino, per poi trasferirsi in città. Come mia madre, anche Pietro lasciò un posto di lavoro sicuro, per intraprendere un’avventura che portava con sé molte incognite. All’inizio veniva gente locale, curiosa di conoscere uno sport, il turismo equestre, che da lì a poco si sarebbe diffuso a macchia d’olio. A Rendola si insegnava il primo approccio all’equitazione e si organizzavano brevi escursioni nei dintorni. Dopo la lezione o la passeggiata, la gente cominciò a chiedere prima un caffè, poi un panino, poi un piatto di spaghetti… fu così che Pietro iniziò a cucinare, scoprendo di avere un talento innato. Poi c’è sempre la sera in cui il focolare ti culla e non vuoi più alzarti: «C’è mica un materasso?», «Certo, ma fa un po’ freddo», «Non importa».
Così, pian piano si creò quello che venne chiamato, anni dopo, agriturismo.
Nel 1978, quando venni al mondo io, ormai era la norma avere ospiti in casa. Si usava ancora il bagno dei contadini: uno stanzino sul balcone con un buco, un secchio e un tubo che scaricava direttamente nel pozzo nero. Si chiamava Massimiliano, perché sopra la porta era stato appeso il nome di un cavallo inciso su un pezzo di legno. Da qualche anno c’era anche un bagno vero con una doccia, ma essendo l’unico della casa era sempre occupato. Crebbi quindi in compagnia di cittadini avventurosi che al mattino facevano la fila davanti a Massimiliano con il rotolo di carta igienica in mano, tremanti nei loro accappatoi sul terrazzo, ma sempre contenti, anche quelli con le macchinone e i vestiti firmati.
Pur senza rendermene conto, stavo assistendo ad un miracolo: persone che quasi per caso si trovavano in una casa fredda e primitiva sperduta nella campagna toscana, a condividere una fetta del proprio tempo con degli sconosciuti, ospitati da un’eccentrica signorina inglese e da un timido contadino del posto… I primi ospiti che ancora tornano a trovarci, ci raccontano sempre del primo impatto, di solito traumatico, dopo il quale però si assaporava un retrogusto di sapori genuini ed una convivialità spontanea, propria di una memoria ancestrale che in questa situazione insolita aveva l’occasione di rinascere.
I termosifoni arrivarono solo nel 1987 e a nove anni ero talmente temprato che i miei anticorpi facevano paura anche a me stesso: d’inverno andavo a scuola con i pantaloncini corti mentre fuori la fontana ghiacciava. I miei coetanei mi vedevano un po’ strano ed in effetti era vero: vivevo i rapporti sociali all’incontrario e invece di andare in paese a tirare due calci a un pallone, avevo il mondo che mi veniva a trovare in casa. Non ero un disadattato, ma per forza di cose vivevo una dimensione diversa e non mi sono mai sentito parte di una classe, di una squadra sportiva o di un gruppo giovanile.
Inoltre, mi mancava tutta la cultura televisiva che i miei compagni condividevano, fino a tredici anni ascoltavo solo musica classica e non mi piaceva la competizione. Avevo un diverso ritmo mentale, molto lento e riflessivo: ero naif.
Fu in quegli anni che arrivarono, insieme alla musica rock e alla tv, anche i primi amori. Devastanti. Tutti vissuti in casa e quindi allo stesso tempo lontanissimi: prima Genova, poi Milano, Varese, Torino, Roma… Ogni arrivo era accompagnato da una partenza ed ecco i primi pianti, mentre osservavo la macchina che scendeva giù per la strada bianca, poi accanto all’asilo e infine sulla cresta del colle… puf! A cena un posto vuoto con un crepaccio sotto il tavolo: ci dovevo mettere sopra delle assi di legno se no gli altri rischiavano di caderci dentro.
È proprio quando mangiamo tutti insieme che nascono le amicizie, gli amori, a volte anche i matrimoni, in un focolare scoppiettante di associazioni di idee, opinioni, sguardi, esperienze, sentimenti e vino veritas. Mi sento un po’ come Novecento di Baricco, nato su una nave che solca mari di ulivi argentei, che fa tappa ai porti dell’Isola di Pasqua, l’Arcipelago di Ferragosto e il Golfo di Capodanno, dove «di gente ne sale tanta, ma non più di quanta ce ne possa stare tra una prua e una poppa». Anch’io suono il pianoforte e intrattengo i viaggiatori mentre li osservo seduti a tavola, quando il pasto lascia il posto alla veglia. Li vedo riflessi nello strumento e vorrei entrarci dentro come Alice nello Specchio, dove ogni persona presente è una corda e le mie mani fanno vibrare le loro anime.
Il cuoco Pietro sorride quando gli fanno i complimenti dalla sala da pranzo. «Mangiabile?» chiede con la bonaria umiltà del contadino.
«Questa è stata la mia università», afferma sempre quando, verso la fine del pasto, s’intrattiene con gli ospiti e ci trasmette la sua incredibile esperienza di essere passato dal medioevo all’era moderna. «Si stava molto peggio d’ora, ma mentre si lavorava si cantava. Ora non si canta più».
Durante i mesi invernali passano a volte alcune settimane senza un ospite e viene a crearsi una specie di famiglia normale. È allora che ci accorgiamo del valore dell’intimità, ma anche di come la gente che passa rinfresca i rapporti, spolvera i granelli di rancore e lava via le monotonie. A volte penso agli alberghi, a tutto quel potenziale umano rinchiuso nel proprio cubicolo: «Buongiorno stanza 47, grazie e arrivederci».
Io sono cresciuto senza avere chiavi in tasca. Qui non c’è un confine definito tra gli ospiti e i geni del luogo. Ci sono libri, soprammobili, cd, e d’inverno anche lenzuoli appesi ad asciugare agli scuri delle finestre. Chi viene apprezza la possibilità di condividere una casa privata, spesso un po’ disordinata…
Forse è stata in parte questa esperienza che mi ha portato ad applicare lo stesso principio al rapporto umano, che come un’abitazione ci permette di vivere e custodire dei sentimenti preziosi, ma nel momento in cui serriamo tutto per paura di essere derubati, diventa anch’esso una prigione.
Purtroppo nel corso degli anni molte cose sono cambiate. Massimiliano è obsoleto e ora se non ci fosse il bagno in camera non verrebbe nessuno. A volte capita che quelli con le macchinone se ne vadano via perché ci sono troppe ragnatele, perché non stiriamo le lenzuola o perché il cane gira liberamente quando siamo a tavola. Adesso quando andiamo in passeggiata a cavallo e lasciamo del concime naturale sulla strada del paese vicino, gli abitanti telefonano ai vigili urbani.
Mi ricorda una scena di Bowling for Colombine, in cui Michael Moore chiede a un poliziotto se può denunciare chi, inquinando con i gas di scarico e le fabbriche, gli impedisce di vedere la collina vicina. Purtroppo quella denuncia non era attuabile…
Sempre più spesso vengono a farci visita gli Uomini Grigi, che fanno lunghi discorsi su come risparmiare tempo. Così finisce che anche noi ci mettiamo a correre come topi in trappola nella gabbia di ferro della burocrazia: moduli per la sicurezza, acciaio per l’igiene e poi fatture, autocertificazioni, statistiche… e si scopre che non possiamo essere un agriturismo, perché non abbiamo abbastanza terra; non possiamo essere quello che abbiamo contribuito a inventare. Allora siamo diventati un «affittacamere»: un nome grigio, grigio come il cemento che allaga le periferie e lambisce spazi dell’anima dove vengono gli amici di Momo.
Novecento improvvisa su una scala minore, il cuore colmo di malinconia. Le lacrime appannano il riflesso degli ospiti che vivono il segreto del vino. Sente le loro voci intrecciarsi in una ghirlanda di echi pagani, ma non riesce più a vedere le forme. Allora chiude gli occhi.
Le lacrime così cadono giù sulle dita, che scivolano su tasti proibiti. Proprio lì, protetto da quel delicato incantesimo che si crea alla fine del pasto e che si può spezzare anche togliendo un solo bicchiere dal tavolo, nasce un modo diverso di fare musica.
Si inizia con una nota sola, ripetuta ritmicamente, come una goccia che cade da un ramo bagnato. Si comprende l’importanza di quella nota, come se fosse l’unica al mondo. E poi, come l’esplosione di colori che vediamo serrando gli occhi, ogni nota in più è guidata dal cuore e non più dalla mente, e non ci sono più note sbagliate.
A volte, capita che qualcuno se ne accorga. Allora Novecento apre gli occhi. Sono asciutti. E vede il riflesso. E la vede. La persona. Che se n’è accorta. Una volta gli ha sorriso: era una bambina di otto anni.
Quella stessa notte ha fatto un sogno. Ha sognato di avere una figlia… Allora ci accorgiamo che anche con tutti gli Uomini Grigi, certi posti restano magici, e succedono miracoli. Basta creare una situazione, non importa dove, anche piccola e circoscritta, dove si stravolgono alcuni schemi, e l’umanità si esprime per quella che è, quando non viene soffocata. Nelle parole di Calvino: «bisogna cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Se non ci facciamo affogare dalla malinconia, scopriamo che gli sguardi sono quelli di sempre, gente vera, splendida e chissà in quali infiniti universi porterà il ricordo di questa bollicina, sulla quale scivolano i colori dell’arcobaleno… POP!