Attenzione: questo articolo potrebbe cambiare radicalmente la vostra idea di vacanza. Si parla di una nuova, straordinaria possibilità: quella di viaggiare stando fermi, aprendo la porta di casa a viaggiatori di tutto il mondo; una pratica facilitata dall’uso di internet. Così, dalla più moderna tecnologia, trova nuovamente il modo di esprimersi una pratica antichissima: l’ospitalità gratuita.
Un’eresia
In un’economia di mercato dove quasi la totalità degli scambi avviene tramite il denaro, parlare di «ospitalità gratuita» suona quasi come un’eresia. Viene subito da dire: e gli alberghi?, e i ristoranti?, e gli agriturismi? Ma soprattutto: sconosciuti in casa… e la sicurezza?! Questa reazione è più che giustificata nel nostro attuale contesto economico e sociale. Tuttavia, chi di noi ha avuto l’opportunità di visitare paesi cosiddetti «poveri», rimane sempre colpito dalla straordinaria disponibilità con cui le persone del posto accolgono chiunque, offrendo quel poco che hanno in maniera spontanea. In generale, sembra che ci sia una legge per cui l’accoglienza gratuita di un popolo sia inversamente proporzionale alla sua ricchezza monetaria…
L’ospitalità nella storia
Un’esperienza raccontata dal cardinale Jean Danielou cattura questa complessa verità storica: un suo amico cinese, convertitosi al cristianesimo, decide di fare un pellegrinaggio a piedi, da Pechino a Roma. In Asia centrale trova ospitalità dappertutto; nei paesi di lingua slava comincia ad avere qualche difficoltà, anche se trova ancora gente disposta ad ospitarlo per una notte in casa. Ma quando arriva in Europa, proprio nei paesi delle chiese occidentali, deve cercare alloggio e riparo negli ospizi e nei rifugi per i poveri, perché le porte delle case private sono chiuse a stranieri e pellegrini. Fin dall’antichità l’ospitalità era considerata sacra, ma sembra che questa sacralità si sia mantenuta solo dove la monetarizzazione degli scambi è rimasta limitata. Lo storico Ivan Illich attribuisce questo fenomeno all’istituzionalizzazione del bisogno: «L’ospitalità è qualcosa che la gente faceva istintivamente. Era l’appello al faccia a faccia, la decisione personale di incontrare l’altro nei suoi problemi contingenti, senza volerlo definire a partire da questi. Fin quando nel terzo secolo dopo Cristo, al tempo di Costantino, la Chiesa non pensa bene di istituire degli ospizi, detti xenodocheion – dal greco xenia, che sta per ospitalità. Da quel momento l’accoglienza passa dalla decisione di ciascuno nei confronti del prossimo alla istituzione di un luogo che definisce i criteri e i requisiti per essere considerati poveri e bisognosi». Dalla separazione di cui parla Illich, inizia quella frattura tra casa privata e ospitalità; quest’ultima così si limita a diventare uno dei tanti prodotti commerciali. Tuttavia nel corso di 1800 anni, per arrivare all’attuale fenomeno del turismo di massa, nelle culture vernacolari si è mantenuto lo spirito originario e nei paesi meno toccati dallo sviluppo si può ancora trovare relativamente intatto. La cosa più interessante però è che negli ultimi cinquant’anni essa stia rifiorendo anche all’interno della società occidentale.
Servas: porte aperte
È proprio dall’orrore della Seconda guerra mondiale che nasce Servas, organizzazione pacifista che promuove la creazione di una rete di ospitalità gratuita, nella convinzione che la conoscenza diretta tra culture diverse possa contribuire alla prevenzione di futuri conflitti. Nelle parole di Gandhi, citate sul sito: «con ogni vera amicizia, costruiamo più saldamente le basi su cui poggia la pace del mondo intero». Chi aderisce a Servas diventa una «porta aperta», ospitando e venendo ospitato senza la necessità di una reciprocità diretta, a differenza dei più diffusi scambi-casa. Sotto questa ispirazione, sono poi nate altre organizzazioni simili: ospitalità tra donne, ciclisti, autostoppisti, studenti, conoscitori di esperanto… Tutti si sono scontrati con gli stessi problemi che ne limitavano la diffusione: la stampa delle liste, la raccolta delle quote d’iscrizione, la difficoltà di promuovere l’idea.
Accoglienza in rete
Poi venne internet. Il pioniere di questa nuova tecnologia fu Hospex, basato in Polonia e ora non più esistente. Da allora i tentativi di trovare una soluzione professionale sono stati molti e attualmente quello più significativo è sicuramente Hospitality Club. Fondato nel 2000 dal ventisettenne tedesco Veit Kühne, attualmente ha più di 55.000 iscritti in 185 paesi. Kühne al momento sta facendo il giro del mondo in autostop per promuovere questa rete mondiale di accoglienza. «Ho iniziato il 15 luglio 2004 e non ho intenzione di fermarmi finché avrò trovato 1 milione di iscritti» dice. «Sono partito dal mio paese, parlando con le persone, i giornali, bussando alle porte… poi sono passato all’Europa, un luogo perfetto per sperimentare lo scambio culturale, con le sue tante culture molto vicine tra di loro. Dopodiché voglio andare a visitare quei paesi dove internet non è ancora diffuso: non debbono assolutamente venire escluse quelle persone che non sono così fortunate da usare internet, ma che possono comunque aprire le loro porte e i loro cuori. Il mio sogno è quello che un giorno chiunque possa andare in un paese straniero sapendo che ci sarà qualcuno ad accoglierlo a braccia aperte. Si tratta di viaggiare in modo diverso, incontrandosi per costruire una reciproca comprensione attraverso il contatto diretto. Penso specialmente ai paesi vittime di conflitti, come Israele e Palestina, Irlanda del Nord, Bosnia, Ruanda e Timor est. Certo, si tratta solo di piccoli passi che non sono di per sé sufficienti, ma credo fermamente che iniziative come Hospitality Club possano dare un importante contributo per gettare delle basi durature per la pace su questo pianeta. Nel giro di un anno conto di trovare 100.000 persone e nel giro di tre anni di arrivare a 1 milione». Sembra che le statistiche del sito gli diano ragione: mentre scrivo, gli iscritti sono 56.415. Hospitality Club non è l’unico a riscontrare un successo significativo. In Australia è nato Global Free Loaders, con circa 25.000 iscritti. Negli Stati Uniti c’è Coach Surfing, che in soli tre anni è arrivato a quota 14.000. Altri siti meno diffusi sono Travelhoo, Trippolis, Stay4free e Place2stay. C’è poi anche chi si «specializza»: l’esempio più importante è Women Welcome Women World Wide, detto «5W». Pasporta Servo è solo per chi parla esperanto (1350 membri). Dal 2000, l’Associazione nazionale fotografi professionisti ha creato una rete di ospitalità reciproca per soli fotografi. Welcome Traveller si colloca ai margini di questa lista, chiedendo un pagamento «simbolico» alla persona ospitante fissato a $10. Infine, molti lettori di Aam Terra Nuova già conosceranno Wwoof (Willing workers on organic farms), che da trent’anni organizza soggiorni in fattorie biologiche in cambio di lavoro, con lo scopo di promuovere, diffondere e sostenere l’agricoltura biologica. Oggi è diffusa a livello internazionale e solo in Italia conta oltre 200 iscritti.
E la sicurezza?
Per iscriversi a Servas, bisogna incontrare personalmente un rappresentante locale e per viaggiare all’estero viene consegnato un apposito documento di viaggio. Questo rappresenta un sistema di sicurezza abbastanza efficace. Ovviamente su internet queste attenzioni sono impossibili e così si è ricorso a degli interessanti meccanismi di fiducia reciproca. Su Hospitality Club, per esempio, ogni iscritto può «fidarsi» (trust) di un altro membro e scrivere un commento su come si è trovato, sia in qualità di ospitante che di ospitato, nonché verificare i dati dei documenti di identità. In questo modo, ognuno col tempo si costruisce una propria reputazione. In più, ogni messaggio mandato per la prima volta tra due membri viene controllato e i messaggi irrispettosi o non appropriati vengono resi pubblici. Ovviamente tutto questo si regge sempre sull’aiuto di numerosi volontari, che operano sia a livello internazionale che nazionale e locale. Ogni membro poi può contribuire ad arricchire il sito presentando il luogo dove vive, con cenni storici, posti da visitare e trappole da evitare…
Un linguaggio universale
Chi non è abituato ad ospitare, né ad essere ospitato, quando si avvicina per la prima volta a questo tipo di esperienze si deve scontrare con le proprie chiusure mentali e con le differenze di chi viene da contesti culturali completamente diversi. Ci si accorge di essere un po’ «analfabeti» e che occorre riappropriarsi di quell’antico linguaggio dei nostri avi, che inizia con un semplice cenno di benvenuto e passa per tutti quei piccoli accorgimenti che mettono a proprio agio sia gli ospiti che noi stessi. Come con ogni nuova lingua, all’inizio ci si troverà impacciati: anche chiedere ospitalità ci costringe a confrontarci con la nostra abitudine a comprare servizi. Piano piano, tuttavia, possiamo imparare non solo ad abbattere quei muri che ci separano dagli altri, ma soprattutto a scoprire le straordinarie risorse di un luogo che a noi pareva talmente vicino: casa nostra.
di Nicholas Bawtree