La signora dei deserti
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Leggiamo questa dedica sul sito di Carla Perrotti, la documentarista milanese ribattezzata «la signora dei deserti» perché ha percorso da sola, a piedi e con uno zaino di 25 chili sulle spalle, i deserti più grandi del mondo. Con l’ultimo viaggio nel 2003 nel Simpson Desert, cuore del continente australiano, ha realizzato il sogno di chiudere un ciclo: un deserto per ogni continente.
Una serie di avventure molto appaganti iniziata in Niger nel ’91, quando è stata la prima donna ad aver seguito i Tuareg nella carovana del sale; nel ’94, il viaggio in Bolivia per attraversare il Salar de Uyuni, il più alto bacino salato del mondo; a seguire quello del ’96 nel Kalahari tra i Boscimani ed infine l’impresa off-limits del ’98 in Cina, dove ha attraversato come primo essere umano in solitaria il deserto del Taklimakan, secondo al mondo come superficie abitabile dopo il Sahara.
Una rambo in gonnella? No, solo una donna coraggiosa, esile e minuta, con un fisico asciutto tenuto giovane e scattante da una quotidiana attività in palestra. Che dal deserto ha tratto lezioni di essenzialità: «Io parlo con il deserto, come con un’entità da conoscere e da cui lasciarsi prendere. Ti insegna la semplicità e l’essenzialità. Le popolazioni che ci vivono sanno che è fondamentale spogliarsi di tutto quello che hanno in più per sopravvivere. Un detto locale, diffuso nella regione del Sahara, recita: “Il deserto non perdona ma aiuta chi è umile”».
D: Carla, non hai mai provato paura durante i tuoi viaggi?
R: Sì, naturalmente. Viaggiare nel deserto è una situazione piena di incognite. Ho attraversato deserti in cui nessun essere umano prima di me era entrato. Non sapevo se avrei trovato l’acqua, cosa mi sarebbe successo, e non potevo contare su nessuno. In realtà durante le spedizioni sono sempre seguita da una squadra d’appoggio, di cui fa parte anche mio marito. Sono in contatto con lui tramite un telefono satellitare. Ma di solito è distante decine di chilometri e di fronte a un pericolo sono completamente sola. Nessuna jeep potrebbe raggiungermi. Quanto a una carovana di cammelli impiegherebbe parecchi giorni. Ma è proprio in quei frangenti che emerge una parte di me che di solito è nascosta e sopita, di cui prima di avventurarmi in situazioni off-limits non conoscevo neppure l’esistenza.
D: Qual è questa parte che emerge?
R: Nel deserto si assapora totalmente la solitudine e non si può fare a meno di riflettere su di sé e di scoprirsi. Così ho elaborato una mia teoria, secondo cui siamo fatti di due parti: una è quella di tutti i giorni, la solita immagine di noi che conosciamo e che esibiamo in pubblico quando siamo con gli altri. È la parte che ci caratterizza e in qualche maniera ci difende. L’altra è quella che si manifesta a nostra insaputa nelle situazioni di emergenza, in cui bisogna mettere in gioco tutte le risorse che sono in parte fisiche ma soprattutto psicologiche. Quando nella vita si rischia e ci si mette alla prova. Viaggiare nel deserto è uno dei tanti modi per gareggiare con se stessi. A volte vorresti gettare la spugna e mollare tutto di fronte a un ambiente così inospitale. La sete, i dolori in tutto il corpo, la disidratazione ti sembrano problemi insormontabili. Così scoppia il conflitto: abbandonare tutto o andare avanti? Ma la parte che io chiamo «folle» in me vince sempre e così proseguo.
D: Come sei stata accolta dalle popolazioni del deserto?
R: Il fatto di essere una donna mi ha sempre spianato la strada. Perché il femminile è un simbolo di prosperità e di pace. Si è più facilmente accettate in quanto alla donna non vengono solitamente attribuite intenzioni bellicose. E questo rende i rapporti molto più distesi, soprattutto con popolazioni diffidenti come i boscimani. Le loro mogli e i bambini ti accolgono in genere con piacere. Un uomo per sua natura ha un modo di porsi più brusco e ciò può allarmare.
D: E come comunicavi con loro?
R: A gesti e con i disegni. Ho scoperto che anche il linguaggio può essere ridottissimo, limitato alle poche informazioni necessarie per la sopravvivenza. Come quello che usano i bambini. Così ho cercato di comunicare nel primo viaggio in Sahara, sedici anni fa, nel ’91. I Tuareg mi hanno fatto sentire una di loro. Man mano che mi inoltravo nel deserto con la carovana del sale, ho perso il disagio e l’imbarazzo iniziale. Anche se ero l’unica donna. Solo con uno di loro, che masticava un po’ di francese, potevo permettermi un linguaggio più articolato. Un giorno mi ha spiegato: «Non ti sei mai chiesta perché gli stranieri soffrono tanto nel deserto, perché non possono viverci? È facile trovare la risposta: perché pretendono di trasportare qui le loro abitudini, non potendo rinunciare alle loro comodità. Se non vuoi soffrire segui le nostre regole, mangia e vivi come noi, imparerai a pensare come noi».
D: Qual è la più grande lezione che hai imparato nel deserto?
R: Il valore della solitudine. Nel deserto le giornate sono scandite dal silenzio. Un silenzio che ti entra dentro, che ad un certo punto fa parte di te: nella traversata del Sahara era interrotto solo dal fruscio delle zampe dei cammelli nella sabbia e da qualche parola scambiata con il traduttore. In Bolivia invece il vuoto era assoluto. Tanto che per farmi compagnia parlavo con il mio carretto, che avevo soprannominato «Chico». Per tutta la traversata, non ho incontrato alcun essere vivente: solo a due ore dall’arrivo ho visto una mosca. La solitudine non mi intimorisce, mi sembra una grande ricchezza: dà la possibilità di scoprire se stessi e di sentirsi liberi.
I deserti di Carla
• Dal XV secolo ogni anno i Tuareg si mettono in marcia dalle oasi del Tenerè in Nigeria verso i mercati, dove barattano il salgemma indispensabile alla vita di animali e uomini. Sono centinaia i chilometri del più famoso e terribile deserto del mondo. La partenza avviene dalle saline di Fachi, per concludersi all’oasi di Tureiet: sono circa 450 chilometri in direzione est-ovest. La carovana del sale, chiamata Azalai, è l’unica vera tradizione di questo popolo legato al nomadismo.
• In Bolivia si trova il Salar de Uyuni, il più alto bacino salato della terra: 10.000 chilometri quadrati di crosta salata spessa a volte decine di metri a 3700 metri di altezza. È situato nella parte sud-orientale del paese, al confine con il Cile. La gente del posto lo teme a causa degli «Occhi del Salar», che secondo le leggende Incas inghiottivano le carovane che a quei tempi vi si avventuravano. In realtà non sono altro che buchi nella superficie salata, dai quali esce l’acqua sottostante, molto pericolosi perché in condizioni di luce particolari sono quasi invisibili.
• Il deserto del Kalahari è un tavolato grande due volte l’Italia e si estende tra la Namibia e il Botswana, nell’emisfero australe a sud dell’Africa. È il territorio dei boscimani, l’unico popolo in grado di sopravvivere in una delle zone più aride della terra. Grazie ad una micro stagione delle pioggie, ha l’aspetto di una savana abitata da una grande varietà di animali: dai pericolosi insetti velenosi ai serpenti mortali, gazzelle, struzzi, iene e leoni.
• Il Simpson desert è situato nel centro del continente australiano. Vi si trova poca vegetazione ed è abitato da animali come dingo, falchi ed emù. Carla vi ha percorso 430 chilometri in 24 giorni. Il racconto delle imprese è descritto in due libri: «Deserti» che parla delle avventure in Sahara, nel Salar de Uyuni e in Kalahari e «Silenzi di sabbia» che racconta le esperienze nel Taklimakan e nel Simpson Desert, entrambi editi da Corbaccio.
• Taklimakan vuol dire «deserto della morte irrevocabile» in lingua Uyguri, l’idioma della popolazione cinese che sui bordi di questo deserto sopravvive in condizioni estreme. Secondo loro chi ci entra non esce più. Lo sapevano fin dai tempi di Marco Polo: infatti nessuna carovana che percorreva la via della seta l’ha mai attraversato. È situato in una depressione nord occidentale delimitata dalla catena dell’Himalaya.
Articolo tratto da Terra Nuova Aprile 2008 disponibile nella versione eBook.
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