Ci sono opere molto antiche che raccontano quanto il senso ed il desiderio di vivere insieme in “Buona Comunità” facciano parte della storia dell’Umanità. Raccontano di utopie sognate e progettate per una vita collettiva di pace ed armonia, in Oriente come in Occidente, e non solo di Comunità religiose.
La “città del Sole” scritto da Tommaso Campanella, in prigione, nel 1602, è opera fondante la letteratura utopistica e visionaria. Racconta di una città costruita nell’isola di Taprobana (Sri Lanka): comunità felice che non conosce corruzione, inimicizia, fame. E’ un dialogo fra un viaggiatore genovese che racconta ciò che ha visto della città utopica ad un cavaliere di Malta. E’ una visita guidata alla città e Campanella è la guida. La città, fortificata, è circondata da sette mura concentriche. Il capo politico, ma anche spirituale, si chiama “sole” o “metafisico” ed i suoi adiuvanti “ministri” sono Podestà, Sapienza, Amore. La città ha caratteristiche che la rendono “felice”: il criterio per scegliere il capo è la sapienza, non esiste proprietà privata, vi è comunanza di tutti i beni e la riproduzione non è legata al matrimonio, né ad un sistema familiare. I “solari” seguono una religione che è nella Natura, divinità da amare e rispettare.
Oltre all’opera, è particolare la vita dell’autore. Tommaso Campanella nasce a Stilo, in Calabria, nel 1568, da una famiglia poverissima. Attratto dal “sapere”, come succedeva a quei tempi per chi voleva studiare e non possedeva finanze, Campanella prende gli ordini religiosi e diventa frate Domenicano. Inizia la sua avventura umana, spirituale e politica. Da ribelle, per le proprie idee, in parte in conflitto con quelle della gerarchia ecclesiastica, subisce più processi. Da rivoluzionario nel 1599 diventa animatore di una congiura antispagnola ed anticlericale. Tradito, viene condannato e per trenta anni vive in prigione dove scrive libri, tra cui “La città del sole”. Uscito di prigione, a Parigi, acclamato, riscatterà il suo destino diventando un noto e stimato protagonista della politica francese. Nella sua opera ci sono idee sul futuro comunismo, sul futuro ambientalismo, ed altre idee alternative alla struttura familiare ed all’educazione dei piccoli. Conforta sapere che, nel 1500, ci fossero idee che si sarebbero sviluppate secoli dopo.
Ma, cosa significa allora Utopia per Orosia, quando all’inizio, negli anni 80 dello scorso secolo, quattro giovani (due ragazzi e due ragazze) lasciano la città e vanno a vivere insieme in un paese del Canavese, con l’idea di costruire una comunità intenzionale? Utopia diventa quell’avventura.
Utopia è quel minuscolo alloggio mansardato in una casa appena fuori di un piccolo paese in una valle. Utopia: una parola, un pensiero, della Storia, dell’immaginario collettivo, studiato a scuola, letto nei libri, un concetto forse assorbito da uno dei tanti “programmi dell’accesso” della nostra infanzia, quando la TV era un mezzo di alfabetizzazione e aggregazione, prima delle “TV commerciali” successive… E’ una delle parole che ci hanno guidato come bussole, diventate CUORE della nostra esperienza, perché la nostra avventura inizia prima dell’ arrivo al paese in Valchiusella e poi a quello attuale, Bollengo (TO), luogo in cui ci siamo trasferiti, dove viviamo da 40 anni e dove abbiamo costruito Orosia: un’azienda, un ‘associazione culturale e un co-housing.
La nostra avventura di “Utopia” in realtà inizia negli anni Settanta, quando un gruppo di ragazzi liceali pensa di voler vivere in modo diverso dai propri genitori e che questa diversità può esprimersi, in quel momento, nella condivisione con i più emarginati, i bambini urbani senza famiglia o con famiglie disagiate che quei ragazzi del liceo, privilegiati, colti, ma anche utopici, attenti ad una politica civile, vogliono aiutare a “non perdersi”, a formare un “gruppo”, che crescendo avrebbe gettato le basi per una vita “alternativa”, più giusta, più equa.
La loro UTOPIA – il loro NON LUOGO (Utopia vuole dire Non luogo, A-luogo) – era a quel tempo, anni ’70, ancora la città, i quartieri del centro, quelli fatti non di B&B scintillanti e isole pedonali, ma di cunicoli di degrado e abbandono, pur nella bella Torino.
E così i ragazzi liceali, che eravamo noi di Orosia, affittano a proprie spese uno spazio, per la verità uno scantinato, dove accolgono questi bambini, li fanno giocare, leggere libri, li aiutano a scrivere, con l’idea di dare loro strumenti che il “sistema” forniva in modo insufficiente o distorto.
Ecco: in quello scantinato inizia la nostra avventura, la nostra piccola Storia, la nostra piccola CITTA DEL SOLE, perché prima che un POSTO, l’utopia del cuore è uno sguardo, un abbraccio, un volersi gruppo e comunità, un abbraccio per tutti, e in primo luogo per gli ultimi e i più deboli.