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Reggio Emilia: fare un ecovillaggio a vent’anni

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Era l’estate del 2014 quando un gruppo di ventenni, stuzzicati da tempo dall’idea di vivere insieme, sentì che era giunto il momento per compiere il grande passo: “si, andiamo, è ora” si dissero l’un l’altro e cominciarono l’avventura.
La motivazione del vivere insieme non ha niente a che fare col risparmio economico o col bisogno di fuggire da qualcosa: Roncadella, nome della frazione e del progetto divenuto residenziale nell’estate 2015, nasce dal bisogno di coerenza di un gruppo di ventenni che vogliono concretizzare l’ideale maturato in anni di attivismo politico sociale nella lotta alle mafie e nella difesa dell’ambiente e dell’acqua pubblica. “Ad un certo punto” racconta Sara Bigi, una delle fondatrici “ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che quello che facevamo non era sufficiente, ci voleva qualcosa di più, come una scelta e una lotta quotidiana. E come avremmo potuto realizzarla se non insieme?”.
Fare comunità a vent’anni si può!
A chi afferma che la scelta di vita in ecovillaggio o cohousing è un privilegio da borghesi, sono felice di dimostrare che non è così.

Si può essere cohousing o ecovillaggio in qualsiasi situazione, se vi è intenzionalità. Sarà che forse a vent’anni è “più semplice” ma non di certo più facile, adattarsi ad un luogo non definitivo con l’intenzione di spostarsi quando le idee e il gruppo raggiungono una certa maturità. Se lo si desidera davvero, è possibile seguire l’esempio dei giovani di Roncadella: individuati i passi da fare, hanno cercato un luogo sufficientemente buono per il periodo di transizione e hanno iniziato la convivenza, vero banco di prova della vita comunitaria. “Abbiamo trovato accoglienza in una canonica in comodato d’uso” spiega Sara “e ogni mese diamo un contributo volontario che viene devoluto alle persone bisognose della comunità di questa zona, a discrezione del parroco e dei parrocchiani”. A Roncadella vivono quattro ragazzi, due ragazze e una bimba di pochi mesi. L’età è compresa tra i 26 e i 31 anni. A tre anni dall’inizio della convivenza chiedo loro di raccontarmi da quali convinzioni hanno tratto la forza per iniziare e se oggi sono ancora valide: “Abbiamo iniziato il nostro ‘viaggio’ di comunità perché crediamo che il mondo abbia bisogno del contributo di ognuno di noi e che ogni sfida è più bella e accettabile se affrontata con gli altri. Crediamo che ogni sogno necessiti di essere sognato insieme per realizzarsi. Abbiamo scelto di camminare fianco a fianco verso un futuro incerto per non farci spaventare da questa incertezza ma, al contrario, abbracciarla e procedere a piccoli passi con la serenità di chi sa di non essere solo. Ci spinge la voglia di cambiamento, la voglia di verità, la voglia di semplicità e siamo convinti che la comunità sia la strada per rispondere a questi desideri. Spesso, ci diciamo che siamo talmente diversi da essere complementari, che non funzioneremmo in nessun modo se non così ma durante la quotidianità è piuttosto difficile far combaciare i nostri modi di essere e di pensare. Quando però ci troviamo a celebrare i piccoli e grandi risultati raggiunti, riusciamo a far brillare la ricchezza della nostra diversità. Ciò che ci tiene veramente insieme, è quel ‘qualcosa’ che ci arde ‘dentro’: ci fa superare i limiti, ci suggerisce di provarci sennò non saprai mai come andrà, di non accontentarsi anche se i compromessi da fare ci sono e ci saranno sempre. Quest’ultima cosa in particolare abbiamo avuto modo di esperirla bene in questi due anni! Crediamo profondamente nell’immenso valore di ogni vita umana e che si possa davvero cambiare il mondo partendo dal cambiare noi stessi”.

Il lavoro: nodo del cambiamento

Roncadella si trova a pochi chilometri a sud di Reggio Emilia, in aperta campagna ma ben collegata alla città. Questa posizione strategica ha permesso ad ognuno di mantenere il proprio lavoro per i primi anni. Poi qualcosa è cambiato. “Ho deciso di lasciare il lavoro nel momento in cui stavamo riflettendo su che cosa significava per noi e cosa avremmo desiderato per il futuro” racconta Silvia Stradi, mamma della piccola Anita. “Non vogliamo accontentarci di un lavoro che ci permette di guadagnare ma che non ci appartiene nei modi in cui viene gestito o si allontana dal mondo come lo sogniamo noi; aspiriamo a vivere il lavoro come qualcosa che ci lasci il tempo per curare relazioni, le per contemplare la crescita dei bimbi che ci sono e che ci saranno. Un lavoro che ci appassioni e che ci dia spazio per esplorare, esplorarci e formarci, che ci faccia sentire liberi e che ci dia modo di nutrire non solo il nostro corpo ma anche il nostro spirito. Vogliamo il pane ma anche le rose!”. Federico Torelli, entrato nella comunità un anno e mezzo fa, condivide a pieno le parole di Silvia ma ha scelto per se un percorso diverso. “Ho iniziato ad affrontare il tema/problema del lavoro da quando mi sono trasferito in comunità. Avevo un impiego da manutentore elettromeccanico che mi impegnava cinque giorni a settimana, per 9 o più ore al giorno. Lavoravo in tutta la provincia e non avevo regolarità. Mi piaceva la relazione con i miei colleghi ma continuavo a chiedermi se spendere gran parte del mio tempo così”. La conclusione di Federico è stata che il lavoro non doveva essere la priorità nella sua vita perché comportava una forte rinuncia alla relazione con le persone care e la comunità. “Così mi sono licenziato e ho cambiato lavoro. Oggi lavoro sempre 5 giorni a settimana, 8 ore al giorno, ma non una di più né una di meno. Non è cambiato molto dal punto di vista del tempo libero ma ha trasformato completamente il modo in cui vedo il lavoro: se voglio posso cambiare, posso rinunciarvi. Continuo a lavorare all’esterno perché lo trovo formativo e percepire lo stipendio mi assicura un fondo economico solido con cui potrò contribuire allo sviluppo futuro della comunità. So che in questa situazione transitoria non mi permette di vivere la comunità a pieno ma confido che in un paio di anni raggiungeremo la stabilità e l’organizzazione necessaria per cambiare lavoro e magari svolgerlo all’interno della comunità!”.

Sara Bigi e Giovanni Ghirardini, sono educatori ed amano il proprio lavoro ma hanno deciso di diminuire le ore e annunciato ai propri colleghi la scelta futura di dedicarsi sempre di più al progetto comunitario. Riccardo Montanari, lavora solo qualche giorno al mese e gioca in una squadra di Ultimate friesbee. Assicura il proprio apporto economico alla comunità e si dedica ai lavori comunitari. Damiano Cabassi, che presenta un’invalidità del 100%, contribuisce in qualunque modo possibile ai lavori nella fattoria dei genitori e ai lavori di comunità. L’intenzione del gruppo è creare le condizioni affinché possa avere un reddito dal lavoro interno alla comunità. “Cerco di sorridere per annientare lo stress psicologico e fisico delle barriere architettoniche che non mi permettono un immediato accesso all’esterno, limitando la mia autonomia. Non avendo un lavoro esterno esco raramente di casa ma confido in un futuro lavoro con la comunità che potrò portare avanti senza nascondermi dietro al fatto di essere “disabile”, perché tutti, chi più, chi meno, lo sono. Mi spinge ad andare avanti il desiderio dell’autonomia, la voglia di conoscere e stare in mezzo a tante persone, l’interesse di salvaguardare l’ambiente e la possibilità di interagire nella gestione quotidiana come le bollette, della cassa comune e gli ordini al Gruppo di acquisto solidale”.

Essere genitori in comunità
Da meno di un anno, Silvia e Giovanni sono diventati genitori. Oltre la dimensione comunitaria, devono rapportarsi alla dimensione della coppia ed ora, anche a quella della famiglia. Ho chiesto loro di raccontare come e se riescono a conciliare tutti questi differenti livelli: “La fatica più grande come coppia è stata quella di trovare equilibrio tra il tempo da dedicare a noi e quello da dedicare alla comunità. A parte questo, dopo aver scelto e imparato a mettere in condivisione le nostre fatiche e gioie non solo tra noi due ma anche con il resto della comunità, ci sentiamo molto fortunati a vivere insieme ad altre persone! La comunità ci ha sostenuti nelle fatiche, pratiche, emotive e spirituali, che abbiamo dovuto affrontare in questi anni e adesso, con la piccola Anita, ci aiuta a non sentirci soli nell’accompagnarla in un percorso di crescita”.
Né giusta né sbagliata: una scelta fuori dagli schemi
“Il percorso per arrivare al progetto che stiamo scrivendo è stato un percorso di crescita non solo personale e comunitario” racconta in modo corale il gruppo “ma riguarda anche i rapporti con i nostri amici e conoscenti. Nel nostro territorio le realtà comunitarie sono per lo più state create da generazioni precedenti e non abbiamo amici coetanei che hanno fatto una scelta simile alla nostra.

La comunità di Roncadella è socia RIVE, in questa foto è ritratta con alcuni facilitatori soci Rive a supporto del loro percorso

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Quando abbiamo iniziato c’era curiosità e attrazione da parte di alcuni per questa scelta “fuori dagli schemi”. Con il passare del tempo e soprattutto con il crescere del gruppo e del progetto, questi hanno confermato la loro posizione e continuano a sostenere e affiancarci pur non facendo parte della comunità. Altri amici, invece, ci definiscono utopici o sognatori che tendono ad allontanarsi dalla società, oppure ci vedono come persone che fanno scelte scomode e difficili. Questo ci fa pensare tanto al nostro rapporto con loro. A volte proviamo con fatica a spiegare le nostre scelte a chi non le concepisce o le accetta ma siamo arrivati alla conclusione che probabilmente la “chiave di volta” è che non c’è una scelta giusta o una scelta sbagliata. Comprendiamo chi sceglie di vivere con proprio partner, di lavorare 40 ore a settimana e ritagliare solo qualche ora per la propria passione. Ma per noi, è chiaro adesso, la strada è un’altra”.

Per chi desidera entrare in contatto con Roncadella, può scrivere a: sarabigi.via@gmail.com
Sono sempre più numerosi giovani e meno giovani che decidono di andare a vivere in un cohousing o in un ecovillaggio, una scelta dettata non solo da motivi economici (vivere insieme costa decisamente meno), ma anche dal crescente bisogno di uno stile di vita sobrio e a basso impatto ambientale, basato su relazioni autentiche e di solidarietà. Il panorama delle esperienze comunitarie, in Italia e all’estero, è assai ricco e variegato. Sempre più spesso si riconosce il valore sociale oltre che ambientale del vivere insieme, tanto che anche in Italia sono in crescita le amministrazioni locali che promuovono bandi per l’assegnazione di terreni o edifici destinati al cosiddetto housing sociale; è successo in Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna e altrove. L’autrice racconta la storia e soprattutto il presente di ecovillaggi e cohousing già attivi in Italia, dei numerosi progetti in via di realizzazione e aperti a nuove adesioni, e delle esperienze internazionali più significative. Quella che emerge è una mappa completa e variegata, utile per chi vuole approfondire una tematica ancora poco conosciuta oppure per chi ha già avviato una riflessione e un percorso, e che nel libro può trovare suggestioni, stimoli e contatti per proseguire il proprio cammino. Vedi il libro!

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