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The Farm: trent’anni di utopia

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Fondata nel 1971 da Stephen Gaskin, The Farm continua ancor oggi a rappresentare un interessante laboratorio ecologico e sociale. A parlarcene è Francesco Casini, vissuto per oltre trent’anni nella celebre comunità californiana.
Erano i favolosi Sixties quando intorno alla figura carismatica di Stephen Gaskin, docente di inglese e semantica alla San Francisco State University, si coagulò ben presto l’ala studentesca più radicale e sognatrice. Erano gli anni dell’utopia hippy e della nascita del pacifismo contro la guerra in Vietnam e ben presto Gaskin diventò uno dei più ascoltati leader del movimento. Nelle sue lezioni si parla di tutto: dalla guerra in Vietnam alla crisi della famiglia, dalla liberazione sessuale alla nuova spiritualità. Un po’ troppo per le autorità scolastiche dell’epoca: nel ’66 Gaskin venne espulso dall’università, ma questo non fece altro che aumentare la sua fama tra gli studenti. Da lì a poco riprese a tenere le sue lezioni, questa volta aperte a tutti, in un auditorium per concerti rock ogni lunedì sera, richiamando sempre più giovani intorno alla necessità di un grande cambiamento.
Nella terra degli hippy
«Sono arrivato in California nel 1970» racconta Francesco Casini con il suo singolare accento yankeefiorentino. «Ero poco più che ventenne e come tanti altri giovani della mia età, ero alla ricerca di me stesso e soprattutto di un modello diverso di società. Anch’io fui subito attratto dalle parole di Gaskin e divenni un frequentatore abituale delle sue lezioni. Insieme a me c’erano almeno altri 1500 giovani che ogni settimana seguivano con grande attenzione quelle lezioni che ormai erano sempre più occasioni di dibattito e confronto all’interno del movimento hippy».
Nel ’71, Stephen Gaskin decise che si era parlato abbastanza e che era tempo di andare a cercare una terra dove mettere in pratica gli ideali condivisi dal movimento. Fu costituita una cassa comune e nel giugno del ’71, dopo una lunga ricerca per gli States, fu acquistata nel Tennessee una proprietà di 850 ettari: era nata The Farm, la comunità che doveva mostrare al mondo la possibilità di vivere secondo gli ideali hippy.
Nasce la comunità
«Ci stabilimmo a The Farm in circa duecentocinquanta» ricorda Francesco. «All’inizio era tutto un po’ improvvisato, c’era tanto entusiasmo, ma nessuna esperienza. Cominciammo a costruire le prime case e a coltivare la terra imparando dalla gente del posto, con cui intessemmo subito buoni rapporti. Un muratore locale, divenuto subito nostro amico, ci insegnò i trucchi del mestiere e in poco tempo mettemmo su una piccola squadra di carpentieri e muratori che ben presto trovò lavoro anche fuori dalla comunità». La notizia della fondazione di The Farm si diffuse rapidamente in tutto il movimento, ogni giorno arrivavano giovani da tutti gli States, attratti dall’idea di vivere in una comunità, basata sugli ideali del pacifismo e della nonviolenza.
Alla fine del ’71, eravamo diventati già 450. Il numero dei residenti cresceva in continuazione, nel 1983 toccammo il massimo storico di 1500 persone. «Fino all’83» spiega ancora Francesco «la gestione della comunità era molto spontanea. Eravamo tutti molto idealisti, ma poco pratici. Accoglievamo tutti, perché ci sembrava giusto fare così, senza chiedercicome avremmo fatto a sfamarci. L’attività agricola si dimostrò subito un disastro. L’unico gruppo di lavoro che portava denaro fresco nelle casse della comunità era quello dei carpentieri e muratori di cui facevo parte».
In quegli anni, The Farm era una fucina di idee e attività. Nel ’74 fu fondata un’associazione di soccorso e sviluppo per sostenere la popolazione dell’Alabama, devastata da un uragano. Qualche anno dopo i volontari di The Farm intervennero in Guatemala per sostenere la popolazione stremata dal terremoto. Sempre negli stessi anni, Ina May fondò un centro per il parto naturale, cosa estremamente all’avanguardia per quegli anni, dove numerose donne andavano a partorire gratuitamente.
Insomma, si continuava ad accogliere gente e promuovere le attività più disparate senza preoccuparsi della sostenibilità economica del tutto. In quei primi anni, l’economia della comunità era basata esclusivamente sui versamenti volontari: nella cassa comune venivano versati gli stipendi di coloro che lavoravano fuori oppure qualche eredità inaspettata. La crisi, ovviamente, arrivò puntuale.
«Nell’82 le banche cominciarono a bussare alle nostre porte» ricorda Francesco. «Avevamo accumulato molti debiti e rischiavamo di perdere la terra. Era necessario cambiare rapidamente registro, così abbandonammo il regime di economia condivisa per passare a una gestione privatistica. La terra continuava ad essere una proprietà indivisa, ma ognuno provvedeva al proprio sostentamento e si impegnava a versare 100 dollari al mese per ripianare i debiti con le banche. Non fu una decisione facile. Molti la vissero come una sorta di tradimento degli ideali comunitari, e tanti se ne andarono proprio: in capo a qualche anno, ci riducemmo a soli 250».
The Farm oggi
The Farm rappresenta tuttora un grande laboratorio ecologico e sociale. A distanza di oltre trentacinque anni dalla fondazione, la comunità non è più un’enclave hippy votata alla ricerca psichedelica, ma alcuni valori di base come la nonviolenza e il pacifismo sono rimasti. Il vegetarianesimo è praticato dalla maggioranza dei residenti, ma non è più una condizione sine qua non per vivere a The Farm. A gestire la vita dell’ecovillaggio è un consiglio d’amministrazione eletto dai residenti e un numero imprecisato di comitati che si occupano dei vari settori. All’interno della comunità sono presenti attività produttive diverse che vanno dall’editoria, alla produzione di tofu, tempeh e latte di soia, dalla coltivazione di funghi shitake alla costruzione di rilevatori di radiazioni, fino alla produzione radiotelevisiva e all’organizzazione di corsi di formazione sull’ambiente e l’ecologia in collaborazione con Gaia University.
L’attività di formazione sul parto naturale continua ad essere uno dei campi d’intervento di punta che ogni anno richiama centinaia di levatrici provenienti da tutto il mondo. Tutte queste attività sono svolte in modo autonomo e occupano solo una parte dei residenti, altri svolgono il loro lavoro fuori dalla comunità.
Un’utopia realizzata
«A distanza di tanti anni» riprende Francesco «posso dire che l’utopia di creare un pezzo di terra d’America liberata è stata realizzata. I primi anni abbiamo dovuto affrontare grandi difficoltà, ma oggi la comunità funziona anche dal punto di vista economico. Certo ci sono ancora dei problemi irrisolti: nonostante la grande estensione della superficie agricola, non siamo riusciti a renderci autonomi dal punto di vista alimentare. Se si escludono gli orti individuali e quelli gestiti in maniera collettiva, l’attività agricola è purtroppo pressoché inesistente. Ma l’obiettivo di creare un modello di microsocietà basata sui principi di nonviolenza, ecologia e solidarietà è più che riuscito».
Proteggere l’ecosistema
Molti di coloro che dopo il rischio di fallimento si allontanarono dalla comunità, nel tempo sono tornati. Altri nuovi membri si sono aggiunti e anche se oggi l’economia è gestita a livello individuale vi è molta solidarietà tra i membri dell’ecovillaggio che comunque continuano a gestire gli 850 ettari in modo collegiale.
Uno dei risultati più interessanti è l’opera di conservazione che la comunità è riuscita ad effettuare nel territorio circostante. Ogni anno vengono acquistati nuovi ettari di bosco al solo scopo di sottrarla all’industria del legno, che sta disboscando rapidamente i terreni vicini.
Lo scopo è quello di ricreare una bio-regione integra collegata attraverso corridoi di biodiversità ad altre aree anche molto lontane. La formula legale utilizzata è quella del land-trust che consente di proteggere per sempre questi terreni dal disboscamento selvaggio.
«I trentasei anni vissuti a The Farm» conclude Francesco «mi hanno insegnato tante cose, ma soprattutto che, quando ci si crede fino in fondo, i sogni, anche quelli apparentemente più incredibili, si possono realizzare. Certo, per iniziare è necessaria un po’ di pazzia giovanile, ma quello che conta è soprattutto la costanza di andare fino in fondo e la capacità di mettere in discussione le proprie idee».

Articolo tratto dal mensile Terra Nuova
 
 

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