Come è nata la volontà di condurre una vita comunitaria?
Quando a 24 anni mi sono sposato con Mirjam avevamo già l’idea di formare una famiglia che fosse aperta e attenta ai bisogni altrui. Nell’invito di matrimonio avevamo usato una frase di Don Lorenzo Milani per dire che volevamo la nostra casa fosse un posto dove gli altri potevano scaldarsi. Questo non ha automaticamente prodotto una vita comunitaria, ma ne ha posto le basi.
E la vera e propria esperienza com’è cominciata?
Abbiamo parlato con vari amici della possibilità di avviare una comunità nella quale praticare stili di vita sostenibili, rispettosi dell’ambiente e attenti alle tematiche sociali. L’idea però non ha trovato realizzazione finché alcuni amici non hanno trovato un luogo interessante. Di fronte a quella proposta abbiamo deciso di buttarci ed è nata l’esperienza delle Sieci.
A volte gli amici e le persone affini non sono necessariamente le persone migliori con cui fare comunità. Più che l’amicizia o l’affinità di ideali conta la voglia di fare, perché questi progetti richiedono tanto lavoro, impegno e fatica – banalmente dalla ricostruzione della casa.
Oltre alla condivisione di ideali, l’aspetto pratico ha avuto un ruolo importante?
Per noi l’aspetto pratico è sempre stato essenziale. Siamo partiti due volte a fare comunità, entrambe le volte con case distrutte. Però le case distrutte hanno costruito la comunità. Per motivi sia economici che ideologici abbiamo scelto di fare noi i lavori di ristrutturazione e in questo modo il posto diventa tuo, diventa vivo. Nel tempo poi ricordi chi ha fatto quella porta, o chi ha messo male quella parete che rimane storta per una vita.
Quali sono stati i modelli e gli ideali che vi hanno ispirato?
Al tempo non conoscevamo i cohousing, avevamo sentito dire qualcosa delle comuni e dei villaggi ecologici non sapevamo niente. Più che modelli avevamo due fonti di ispirazione. Giampietro e Marcella, gli amici con cui abbiamo avviato l’esperienza delle Sieci, provenivano dall’esperienza di Ontignano L’altra fonte di ispirazione era il Centro Nuovo Modello di Francuccio Gesualdi. Si tratta di tre famiglie che vivono insieme, coniugando attività politica e accoglienza.
Noi volevamo parlare di stili di vita sostenibili e delle disuguaglianze nel mondo, per cui abbiamo fatto un percorso didattico e un sacco di incontri, inclusi quelli per criticare l’Organizzazione Mondiale del Commercio e che ci hanno portati a Seattle nel ‘99.
Oltre a condurre uno stile di vita comunitario, sia alle Sieci che all’Aia Santa vi siete contraddistinti per un forte impegno in ambito sociale, condividendo i vostri spazi di vita privata. Che tipologie di persone avete accolto? Com’è andata?
Le prime accoglienze hanno riguardato persone con disagio mentale. Da noi si trovavano bene perché oltre alle nostre famiglie c’erano anche dei volontari di passaggio – che arrivavano attraverso Servizio Volontario Europeo e più tardi come Woofer. Questa combinazione creava una micro struttura sociale in più gruppi, che favoriva una buona accoglienza.
All’Aia Santa, invece, in cinque anni abbiamo accolto 14 ragazzi in uscita dalle case famiglie. Li abbiamo accompagnati nelle cose della vita, dal fare la lavatrice fino alla ricerca di un lavoro. Poi è stata la volta delle persone immigrate, che arrivavano attraverso il CAS. Ne abbiamo accolte, negli ultimi anni, una ventina.
Le accoglienze per noi sono state uno scambio continuo e ci hanno arricchito sempre, anche quando le cose sono state difficili perché ci è rimasta la forza di poterle superare.
L’equilibrio complicato è fra l’essere aperto agli altri e saper porre dei limiti. A volte con gli stessi figli è difficile dire “ora sto per conto mio”. Ma ad essere sempre aperti si chiude per esaurimento forze, quindi porre dei limiti è stato utile.
Qual è stato un elemento chiave della vita comunitaria?
I bambini sono stati un motore potentissimo per la vita comunitaria. Quando per un periodo abbiamo iniziato a mangiare separati per famiglie i bambini hanno iniziato ad informarsi su cosa ci fosse a cena nelle varie famiglie, e andavano tutti a mangiare dove c’era la cena migliore. Per evitare che mangiassero tutte le sere pizza o wurstel e patatine abbiamo deciso di cucinare a turno e di ricominciare a mangiare tutti insieme.
E nei momenti di difficoltà che cosa si è rivelato utile?
Spesso tendiamo a dare per scontato che una volta instaurate le relazioni restino stabili, ma non è così. Come serve la manutenzione della casa serve anche una manutenzione delle relazioni.
Ce ne siamo accorti perché per i primi nove anni non abbiamo avuto nessuna supervisione esterna e ci siamo ritrovati con delle forti tensioni fra le coppie a causa di visioni diverse su come stare insieme e fare comunità. Negli ultimi dodici anni invece, anche se con cadenze irregolari e dettate dalle necessità, abbiamo chiesto supervisione per chiarire le nostre dinamiche. A volte non serve neppure trovare delle soluzioni, ma solo tirare fuori le cose, anche perché alcuni di noi vivono insieme da ormai 19 anni, quindi ormai ci conosciamo.
Come collocheresti le scelte di vita comunitaria nell’attuale panorama sociale?
In questo momento storico ragionare sull’abitare è piuttosto importante. Non perché tutti debbano fare una scelta di vita comunitaria, ma perché siamo abituati ad un modello che ci spinge verso l’individualismo. Ci fa pensare di dover risolvere tutti i problemi da soli e ci rende insicuri. Insieme si può fare meglio, quindi hanno senso i cohousing, le comunità e il buon vicinato… anche solo andare dal vicino e chiedergli il sale.