Bambini felici, relazioni positivi tra gli individui e tra individui e gruppo, gestione costruttiva delle emozioni, empatia, rispetto, comprensione profonda. Utopia? Nient’affatto, men che meno dev’essere considerato utopico realizzare tutto questo nella scuola. Impegnativo, questo sì; «occorre volontà di cambiamento positivo» ci spiega Cristina Lorimer, esperta di educazione affettiva e relazionale, che da anni porta avanti e conduce attività con le classi della scuola Primaria proprio per concretizzare questi obiettivi. Svolge la sua attività a Scuola Città Pestalozzi a Firenze, una delle tre sperimentazioni autorizzate ufficialmente in Italia dal Ministero dell’Istruzione per “mettere in pratica” modelli differenti di insegnamento-apprendimento. A Scuola Città la scelta è stata quella di creare una comunità educante che di fatto crea continuità tra Primaria e Secondaria di primo grado.
Dottoressa Lorimer, lei porta nelle scuole attività che coltivano e sviluppano le relazioni e la riscoperta e la valorizzazione delle emozioni. Quanto è importante lavorare con i bambini fin da piccoli su questo?
«È commovente vedere quanto siano importanti per loro le relazioni. È un campo che la scuola ha spesso trascurato, per investire invece tutto sulle materie curricolari. Eppure, ogni intralcio nelle relazioni è vissuto dai bambini con intensità e quindi hanno bisogno di capire cosa succede in loro e tra loro e i compagni. Per esempio, tengono tantissimo al “tempo del cerchio” in cui si mettono in comune gioie e dolori. Proporre determinate attività fa passare il messaggio che noi insegnanti teniamo veramente al benessere dei bambini, che non li consideriamo solo alunni che imparano a leggere, scrivere e far di conto ma anche persone che devono imparare a stare insieme. Questa capacità di avere relazioni positive e leali con gli altri sarà un bagaglio prezioso nella crescita, perché tutti siamo destinati a lavorare o comunque a interagire con gli altri. Prima si comincia meglio è. Già alla materna sarebbe utile lavorare sulle relazioni».
Perché secondo lei c’è così tanto bisogno di riscoprire “come si sta insieme”? La scuola è forse specchio di una società con relazioni compromesse?
«Purtroppo la società è sempre più competitiva e la competizione danneggia le relazioni. I genitori stessi indirizzano i bambini verso tante attività dopo l’orario scolastico perché si trovino pronti ad affrontare la vita con nozioni di musica, inglese, nuoto, danza, calcio ecc. La società odierna insiste sulla prestazione, si pensa che sia più importante il fare che l’essere. I bambini mi dicono di non avere un pomeriggio libero per stare con gli amici. Per questo è importante lavorare sullo stare insieme. Mi piace un vecchio proverbio africano che dice: se vuoi arrivare primo corri da solo, ma se vuoi arrivare lontano cammina insieme».
Che tipo di lavoro propone nelle scuole? Sarebbe possibile proporlo anche a gruppi esterni?
«Ho messo a punto con l’aiuto di colleghi un percorso di educazione affettiva e relazionale che si sviluppa sui cinque anni della Primaria. Le attività comprendono l’ascolto di favole, giochi relazionali, attività artistiche e discussioni. Il percorso parte dalla capacità di lavorare insieme e prosegue con la lettura delle emozioni, la gestione e mediazione dei conflitti, la costruzione di regole condivise, la responsabilità personale. Penso che questi percorsi possano essere proposti anche al di fuori della scuola, sono attività pensate per gruppi di bambini e ragazzi che devono imparare a stare insieme».
Che strumenti ritiene di fornire ai bambini che poi possano utilizzare anche fuori dalla scuola o in altra età in modo costruttivo?
«Innanzi tutto il coraggio di esprimere le proprie idee. Poi la capacità di leggere le emozioni proprie e altrui, e di considerare il conflitto un’opportunità per capire cosa è importante per noi e per gli altri. Messaggio importante è anche che i conflitti si possono mediare, si possono risolvere senza per forza aver bisogno dell’aiuto degli adulti. Ma soprattutto, attraverso il percorso sulle regole e la responsabilità personale, bambini e ragazzi imparano cosa significa essere cittadini che appartengono a una comunità».
Che risultati ha visto negli anni?
«Il percorso di educazione affettiva e relazionale si inserisce in una didattica che mette il bambino al centro. I nostri alunni considerano la scuola casa loro e mantengono rapporti con i compagni anche dopo. Alcuni continuano a incontrarsi anche quando sono all’università. Penso che la parte più importante del percorso, oltre all’aspetto legato alle relazioni, sia la consapevolezza che ognuno è responsabile del proprio futuro, l’empowerment appunto. Cioè sapere che si può fare qualcosa per migliorare la propria vita con il contributo degli altri. I ragazzi tornano e ci riportano che gli anni passati con noi sono stati anni felici. Le attività che proponiamo sono divertenti e sono scuola al tempo stesso, loro lo percepiscono».
Un messaggio/esortazione alle famiglie e agli insegnanti sul fronte delle relazioni e dell’empatia?
«I genitori sono sempre molto attenti quando insegnano ai bambini a parlare ma non sono così scrupolosi nell’insegnare loro a riconoscere le emozioni proprie e altrui. I conflitti vengono bloccati senza lavorare per comprenderne le cause. È fondamentale invece riportare nelle nostre vite il valore della gentilezza, del rispetto dell’altro e dell’empatia. Tutto questo deve partire dall’esempio dell’adulto, che è bene mostri empatia e abbia a cuore le emozioni e i sentimenti dei propri figli o alunni. Purtroppo, spesso gli adulti usano l’ironia, lo svilimento e il pregiudizio per nascondere le proprie difficoltà nel gestire le situazioni. Impariamo a metterci, dunque, nei panni degli altri. Cerchiamo, come insegnanti o genitori, di non vivere le reazioni degli alunni come attacchi ma come segnali di un disagio che va esplorato».
Per mettere in pratica percorsi di educazione affettiva è necessario avere un numero maggiore di docenti rispetto agli organici standard nelle scuole?
«L’unica cosa necessaria è la volontà dell’insegnante di impegnarsi nel percorso e la forza di non scoraggiarsi quando incontra difficoltà. Lavorare sul conflitto, per esempio, non significa che i bambini smettono di litigare ma che imparano a gestire il disaccordo. Certo, è bene che il team dei docenti sia informato ed è utile condividere la modalità di approccio con gli alunni perché il messaggio educativo sia coerente. All’inizio dell’anno è importante spiegare ai genitori cosa si intende fare e perché sia utile e formativo. I bambini che stanno bene insieme imparano meglio e vengono più volentieri a scuola. Il percorso può essere portato avanti anche da un solo insegnante ma è bello e utile che talvolta siano presenti anche altri membri del team».
L’educazione affettiva riguarda solo la Primaria o anche altri ordini di scuola?
«È adatta per ogni ordine di scuola, anche se le attività vanno adattate. Ho avuto l’opportunità di far sperimentare ai genitori degli alunni alcune delle attività fatte con i bambini ed è stato utilissimo. In forma sperimentale, parti del percorso sono già state usate per facilitare l’inclusione di alunni extracomunitari in una scuola superiore».
Quanto tempo è necessario per portare avanti il percorso? Gli insegnanti devono avere una formazione particolare?
«Nella scuola primaria occorre continuità, dedicando a queste attività da un’ora a un’ora e mezzo alla settimana. Rispetto alla formazione degli insegnanti, sì può essere utile, ma basterebbe anche riscoprire in noi la nostra profonda umanità sviluppando quelle doti di empatia e solidarietà che ci hanno permesso di sopravvivere come specie e che oggi tendiamo a dimenticare. Il manuale
Insieme s’impara a stare insieme può essere di grande utilità come strumento di base e come guida. Ci sono numerose proposte diverse e incoraggio a provare, cambiare, modificare, inventare seguendo anche le proprie intuizioni. Quello che conta è la meta, ma ognuno può scegliere la propria strada».