Gabriele Caforio, membro attivo dell’associzione Peacelink, prende posizione sulla legge di revisione costituzionale e sul referendum del prossimo 4 dicembre. E annuncia il suo no.
Il 4 dicembre urne aperte per il voto sul referendum che chiede di confermare o respingere la revisione della Costituzione varata dal governo guidato dal premier Matteo Renzi. Questo referendum sarà senza quorum, ciò significa non ci sarà bisogno di un numero minimo di votanti per considerarne valido l’esito. Intanto è già stato presentato ricorso al Tar sul quesito che dovrebbe essere stampato sulla scheda. Abbiamo chiesto ad alcuni esponenti del mondo della sostenibilità, dell’ecologia e della decrescita cosa ne pensano della legge di revisione costituzionale e del referendum.
Ecco l’analisi di Gabriele Caforio
Salentino, 31 anni, laureato in Scienze politiche, membro attivo dell’associazione Peacelink(3), all’interno della quale si occupa di sviluppo sostenibile, ambiente e temi sociali. Collabora con diverse testate di altra-informazione.
«Nel 2013 PeaceLink ha sostenuto l’appello Costituzione: la via Maestra di don Luigi Ciotti, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e a ottobre di quell’anno siamo scesi in piazza contro questa riforma costituzionale sulla quale ora, dopo mesi di forzature, trasformismi, pressioni politiche e personalizzazioni, sono chiamati a votare gli italiani. Non vogliamo riforme “grimaldello”. Può una riforma, promossa da governi espressione di una legge elettorale dichiarata incostituzionale, rappresentare realmente la volontà riformatrice degli elettori? Noi crediamo di no. C’è un problema democratico di fondo in questa riforma, che già tocchiamo con mano nelle nostre battaglie quotidiane in nome della pace e dell’ambiente. Ce ne accorgiamo quando un governo che propone ora un ulteriore rafforzamento delle sue prerogative a discapito dei passaggi legislativi parlamentari, gode già di immunità e libertà d’azione su istanze ambientali o sulla gestione degli armamenti. All’Ilva di Taranto i cittadini e le associazioni come PeaceLink sono ancora lì a chiedere rispetto per il lavoro della magistratura, trasparenza sul futuro dell’acciaieria, incontri partecipati per confrontarsi sui numeri, sul futuro e sulla salute e in cambio ottengono solo istituzioni che si blindano e che blindano la vita di un’industria malata a suon di decreti e autorizzazioni che si rinnovano di continuo. E la gente continua ad ammalarsi. Ce ne accorgiamo quando chiediamo che i fondi per gli armamenti diventino fondi per la ricerca o per la tutela del paesaggio, sancito come “bene comune” e che invece rimane in balìa dei terremoti, delle piogge e delle bonifiche ambientali che non arrivano mai. Le politiche ambientali, per funzionare, hanno bisogno di programmazioni pubbliche lunghe, che vanno oltre il singolo mandato di un governo e che si intrecciano con percorsi partecipati in cui le comunità locali hanno il potere di far fare le scelte migliori per i propri territori. Nuovi equilibri legislativi, che accentrano o sbilanciano troppo i poteri dell’esecutivo, non portano di certo a politiche ambientali sane. Stiamo perdendo la democrazia partecipativa e andando verso un’oligarchia che cerca di adeguare la Costituzione alla propria natura».