Dell’igiene delle parole in quanto bene comune…
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Eppure non guardiamo la televisione, non compriamo i giornali, ci informiamo su internet e diciamo la nostra: e abbiamo l’impressione di stare scegliendo, di scegliere le parole che usiamo e di scegliere cosa leggiamo.
Io, per esempio, mi stupisco: ed esito, perché mi verrebbe voglia di spiegare che “no, non siamo in guerra”, che la Presidente della Camera dei Deputati non c’entra con quello che capita in Catalogna o in Finlandia o in Germania. E invece mi trattengo: è un balletto di parole, e metterei in giro solo altre parole da consumare velocemente. Pure, io con le parole lavoro e di parole vivo, e le parole a volte diventano urgenti, come sa ogni bambino che fatica a stare zitto, fino a tenersi le mani davanti alla bocca per non farle scappare.
Evitando che le parole impediscano l’ascolto, anche il nostro: e cercare di non dire cose come “le cose sono più complesse” – perché chi ci sta parlando ha paura di quella complessità e non la vuole: vuole intravedere una sua strada, e magari ci sta anche chiedendo un consiglio per dove andare.
Pensando a parole che mantengano viva non dico la speranza (caspita: la parola della sinistra di questo ventennio, usata da tutti eppure nata come parola davvero intima) ma almeno la gioia di provarci.
Portando avanti tanti racconti: solo nelle dittature i racconti sono unificati, e un mondo con un solo racconto è una dittatura.
Pulendo, ogni tanto, le parole, e i fatti: con un altro punto di vista, o un pochetto di verità; in modo da dirlo che certe storie sono false. E che se continuano a girare è solo perché preferiamo una paura che conosciamo a una realtà sconosciuta.
E possiamo prendere le parole di altri: ma perché ci fanno pensare, non perché ci dicono cosa fare. O semplicemente perché ci raggiungono nel profondo.