Aveva 53 anni, lo ha ucciso una polineuropatia tossica, che gli era stata diagnosticata dopo che aveva trascorso anni ad aprire e mescolare pesticidi in un’azienda agrizola. Fabian Tomasi è morto in Argentina, era diventato il simbolo della lotta contro la Monsanto, il glifosato e i pesticidi tossici.
Era diventato il simbolo della lotta degli agricoltori argentini contro il
glifosato: Fabian Tomasi, 53 anni, è morto dopo una lunga agonia. Era stato immortalato anche dal fotografo Pablo Piovano nell’impressionante
The Human Cost of Agrotoxins, il reportage con cui ha documentato gli effetti di un ventennale utilizzo indiscriminato dei prodotti agrochimici in Argentina.
«Il suo corpo era diventato un’arma. La sua gabbia toracica da cui sporgevano due braccia sottili che non si capiva come potessero restare attaccate, la sua colonna vertebrale rigonfia per la scoliosi, le palpebre sempre spalancate, le guance emaciate coperte da una folta barba. E nel mezzo, una bocca nera, allargata, che sembra lottare per prendere ancora una boccata d’aria. Era il grido dell’inquinamento argentino, una replica moderna del capolavoro di Edvard Munch»: questo il ritratto con cui il quotidiano francese Le Monde ricorda la figura sofferente e martirizzata dell’operaio agricolo argentino.
Tomasi era diventato un emblema delle lotte ambientaliste; diceva «siamo colpiti da un sistema di produzione che si preoccupa di più di riempire le tasche di alcuni che della salute delle persone».
Aveva lavorato dal 2005 per l’azienda agricola dei fratelli Molina: apriva i contenitori dei prodotti chimici e li sversava in una cisterna da 200 litri per la miscelazione con l’acqua, attraverso un tubo. Nessuna formazione specifica, nessuna protezione dai veleni, un solo consiglio: «Non metterti controvento, così i gas non ti raggiungono».
Fabian non portava i guanti e nemmeno la tuta. Del resto non lo facevano nemmeno i fratelli Molina, i suoi capi, che anni dopo moriranno di cancro a loro volta. Gli era capitato perfino di lavorare scalzo e la sua pelle era entrata in contatto con il glifosato, il Ddt, l’endosulfano e altre sostanze. Con i primi sintomi erano arrivati i trattamenti medici, ma nessuno sembrava in grado di formulare una diagnosi. Ci pensò un medico, il dottor Alberto Lescano: polineuropatia tossica, la sentenza senza appello.
Non poteva mangiare nulla di solido e aveva difficoltà a camminare e a muovere le braccia. Negli ultimi anni hanno dovuto aiutarlo a nutrirsi. A un certo punto gli dissero che aveva sei mesi di vita, invece ha resistito per più di un decennio.
Il dottor Medardo Ávila, della Rete universitaria per l’ambiente e la salute, ricorda Tomasi come un amico e avverte: «Le compagnie che gestiscono l’irrorazione aerea dei pesticidi sono le più inquinanti, quelle che ne utilizzano le dosi più alte, adottano meno precauzioni e ricevono più denaro in tutto il settore agroalimentare. Ci sono centinaia di Fabian che lavorano senza alcun tipo di protezione e manipolano veleni».
La stessa denuncia è arrivata da Tomasi nel corso di innumerevoli interviste con i media nazionali e stranieri e degli eventi a cui ha prestato la sua voce, le sue idee e il suo corpo.
Il vero obiettivo della sua campagna per l’introduzione di una legislazione nazionale sui pesticidi era il mercato della soia transgenica, che dalla fine degli anni Novanta si è imposta nel Paese come principale prodotto agricolo da esportazione scalzando l’allevamento e le coltivazioni meno redditizie.
In Argentina la soia Ogm comporta l’irrorazione di 300mila tonnellate di glifosato ogni anno: «Dobbiamo rompere con il sistema delle colture transgeniche. – affermava Tomasi in una delle ultime interviste – Qui in Argentina siamo sempre stati un laboratorio per le imprese agricole e l’industria chimica da quando Monsanto è entrato nel Paese in circostanze sospette nel 1996. Ora ci sono migliaia di vittime».
Alcuni hanno screditato le sue testimonianze, sostenendo che la sua malattia dipendesse dal diabete cronico da cui era affetto.
Tomasi tuttavia non aveva mai cercato una rivalsa economica. Lo scorso mese, commentando con sollievo la
condanna di Monsanto a un maxi risarcimento nella causa intentata dal giardiniere americano Dewayne Johnson, aveva affermato: «Non ho bisogno di soldi in questo momento. Ho bisogno di vita. Queste non sono aziende, sono operatori di morte».