Ecco il testo integrale dell’articolo pubblicato sul sito di Re:Common (per gentile concessione degli autori).
Viviamo una crisi sanitaria globale senza precedenti, almeno nell’ultimo secolo. In qualche modo era preannunciata, ma ha trovato le società iper-tecnologiche di gran parte del Pianeta totalmente non attrezzate a confinarla e gestirla, con implicazioni economiche e sociali che sono ancora difficili da valutare.
Di fronte all’incertezza che regna sovrana e fa sentire un po’ chiunque più vulnerabile, dalle stanze del potere politico e economico, alle famiglie, a chi una casa non ce l’ha, sono subito partiti i proclami di guru e maitre a penser di diverso orientamento tutti concordi, che dopo questa crisi nulla sarà più come prima.
I più radicali hanno iniziato a parlare della crisi finale del capitalismo (ma quante volte il capitalismo doveva finire negli ultimi 500 anni?), i più visionari di un mondo post-coronavirus dove si vivrà solo a distanza (ma davvero pensano che miliardi di persone accetterebbero una situazione del genere?), i più economisti parlano di riorganizzazione globale del lavoro (ma non è già in corso da decenni?), i più strateghi dello scontro finale tra Usa e Cina (scontro finale che durerebbe da due decenni). Sono tutte ottime sceneggiature per nuovi film di Hollywood – chi lo sa quanti ne avremo nelle sale dopo questa crisi – che però fanno arrossire se si comparano agli editoriali molto simili scritti dagli stessi luminari dopo la crisi finanziaria e poi economica del 2007-2009.
Potremmo anche tornare a leggere cosa si scrisse dopo lo scoppio della bolla della digital economy ad inizio anni 2000, dopo la crisi finanziaria delle tigri asiatiche del 1997 e dopo il lunedì nero di Wall Street del 1987. Probabilmente noteremmo proclami simili, se non uguali. Poi cosa successe dopo ognuna di queste crisi? Continuò quella lenta trasformazione a cui la “mega-macchina” della globalizzazione è soggetta da secoli, al netto di poche scosse. Si dirà, però, che questa è un’emergenza sanitaria e il tutto non nasce né da fenomeni finanziari, né economici, né sociali. Vero, ma trovata poi la cura e il vaccino, anche se forse ci vorrà più di un anno, i processi della mega-macchina continueranno, seppur con piccoli aggiustamenti. Magari fino al prossimo virus e al conseguente lockdown.
Se guardiamo alle tendenze fondanti del processo di lungo termine, su cui il lavoro degli ultimi anni di denuncia e di campagna pubblica di Re:Common si è focalizzato ed ha cercato di incidere, in realtà questa attuale crisi sistemica le mette tutte in rilievo, ed anzi le rafforza, senza produrre particolari rotture.
In primis il connubio e la complicità dello Stato con pochi interessi privati, finalizzato ad assicurare un’estrazione di maggiori profitti in tempi di crisi dei sistemi produttivi, sia tramite deregolamentazioni che violazioni di diritti e dell’ambiente, o alchimie finanziarie, producendo un rafforzamento delle elite delle società estrattiviste, come le chiamiamo noi. Questo richiede uno Stato forte che garantisca gli interessi degli investitori privati, l’adattamento delle leggi alle esigenze di questi ultimi e reprima il dissenso e l’opposizione al progressivo impoverimento dei territori e all’aumento degli abusi. Siamo contrari oggi più di ieri a quello che si pensa, anche da parte di chi critica il modello neoliberista, che tale modello si focalizzi sullo smantellamento tout court dello Stato. In tutto ciò poco stupisce che anche questa volta i bazooka finanziari pubblici – a prescindere se si stampa nuova moneta o si produce nuovo debito – alimenteranno i conti delle banche private, che saranno ancora una volta i soggetti che decideranno chi si salverà dalla crisi economica e chi no.
È utile non farsi distrarre dalla geopolitica, che tanto appassiona alcuni in questa fase di crisi. Che il pendolo della storia si sposti dall’impero americano al dominio cinese è già scritto ed è una lenta trasmigrazione. Alla fine questa crisi sanitaria rafforzerà la potenza cinese, a fronte di una patetica prova di quella americana, incapace di gestire al meglio quest’immane emergenza. siamo certi che la Russia ne approfitterà utilizzando la leva energetica, favorendo la resurrezione della potenza russa, dopo lo svarione del crollo della cortina di ferro. Forse è più interessante invece focalizzarsi su come ogni potenza, a fronte di una crisi senza precedenti del mercato del petrolio – che trova le sue cause in scelte di lungo termine fatte in passato – si affretti a salvare i propri campioni energetici nazionali con sussidi senza precedenti, in barba ad ogni impegno nella lotta ai cambiamenti climatici. Di nuovo vediamo agire con virulenza il connubio Stato-corporations che è la pietra angolare del modello estrattivista.
In secondo luogo una convergenza di élite in nome dell’emergenza e del mondo da salvare dal virus legittima la creazione di uno stato di eccezione, quello che abbiamo già visto in Italia da due decenni a questa parte per la realizzazione delle famigerate grandi opere, o per interventi urgenti anti-crisi o post-calamità. Un’eccezione che facilita spesso malaffare e corruzione: una storia in cui l’Italia eccelle, come molti altri paesi. È ancora fresca la notizia della presunta turbativa d’asta nelle forniture di milioni di mascherine allo Stato. Davvero non c’è limite al fondo.
In terzo luogo l’inevitabile impossibilità di controllare chi detiene il potere, e spesso la conseguente impunità per chi commette gli abusi, in nome dell’emergenza e la salvezza nazionale. Impunità che spesso si collega all’impossibilità di controllare, anche per il pubblico. Un piccolo esempio che riguarda il lavoro di Re:Common, azionista “critico” di banche e grandi aziende partecipate dallo Stato italiano, quali Eni ed Enel. Con il decreto Cura Italia il governo ha permesso di fatto che le assemblee degli azionisti si svolgano senza alcuna partecipazione degli stessi azionisti, riducendole ad una formalità di quindici minuti con la comparsata di poche persone di fronte a un notaio. Meglio non rinviare le assise a quando la quarantena finirà, pur se permesso contraddittoriamente dallo stesso decreto, ma far avvenire a porte chiuse subito le nomine dei vertici delle più grandi aziende italiane, quelle strategiche da difendere sempre con il tricolore in mano.
Di queste tre tendenze, la concentrazione del potere è la vera matrice di fondo che rappresenta il principale limite a progettare una transizione giusta per tutti, che per essere davvero trasformativa dovrà basarsi sul principio della resilienza, la quale richiede decentralizzazione del potere e autonomia delle comunità.
La risposta alla crisi sanitaria è stata emblematica. Salvo rare eccezioni, il sistema sanitario ha vissuto negli ultimi decenni una forte centralizzazione nei poli ospedalieri – spesso per favorire il connubio pubblico-privato di cui sopra – togliendo risorse e capacità di azione, proprio nelle emergenze come queste, ai medici di base e ai presidi territoriali. Oltre a questo, e parte dello stesso processo che vuole favorire il privato in tutto e per tutto, è stata smantellata la medicina del lavoro, togliendo di fatto gli strumenti al sistema medico per essere presente nei luoghi di lavoro. Non è un caso che proprio in quei luoghi si sia diffuso maggiormente il contagio e che in emergenza si è dovuti correre ai ripari quando il danno era già stato fatto.
Le misure restrittive eccezionali spingono ancora di più le persone a procacciarsi il cibo nei grandi supermercati e ad utilizzare la logistica totalmente centralizzata di Amazon e pochi altri per le consegne. Insomma, di fronte all’emergenza si promuove ancora più la centralizzazione che poi facilmente cambierà ulteriormente stili di vita e norme sociali, rimanendo anche nella “normalità” a cui dovremmo ritornare.
Ma allora non ci sarà proprio nulla di nuovo una volta che l’emergenza sanitaria sarà finita? Non proprio. Ci sono alcuni segnali di nuovi fenomeni che è giusto scrutare anche se sono ancora in via embrionale.
A distanza di venti anni dalla critica alla globalizzazione culminata nelle proteste di piazza al tragico G8 di Genova del 2001, si torna a parlare di bisogno di tornare indietro rispetto al quel progetto. Qualcuno azzarda il termine “deglobalizzazione”, almeno in alcune sfere economiche e sociali. Il tutto proprio quando, grazie a un forte consenso tra élite politiche ed economiche, il mondo si sta orientando alla realizzazione di una migliore infrastruttura materiale, digitale e sociale che acceleri i movimenti di merci e capitali, a partire dal faraonico progetto della Belt and Road Initiative cinese. Questa, nota ai più come “la Nuova via della seta”, è un’iniziativa strategica del governo cinese per accelerare l’export del suo cronico surplus di produzione tramite il miglioramento dei collegamenti commerciali con i paesi dell’Eurasia, inclusa l’Italia.
Lo spazio politico e di rivendicazione che si apre con la messa in discussione dell’ineluttabilità del processo di globalizzazione è cruciale per affondare una critica sistemica al piano di una “globalizzazione 2.0” in risposta ad una crisi della crescita economica mondiale in corso da anni e basata sulla realizzazione di mega-corridoi infrastrutturali. Per esempio quelli della nuova Via della Seta, che accelerano merci e capitali e ridisegnano la geografia del Pianeta per permettere una produzione just in time che riduca tempi e aumenti i margini di profitto. Un piano che porterebbe di per sé devastazioni ambientali, fino al tracollo climatico, più sfruttamento in nome del progresso, e ulteriori pandemie e crisi.
Allo stesso tempo, questa volta siamo al vero redde rationem del progetto europeo. Dietro i soliti teatrini e schermaglie, emerge chiaramente che o si reinventa presto e trova nuovo slancio e motivazioni (magari proprio per mostrare al mondo che si possono creare società più decentralizzate, sostenibili e resilienti, anche se dovremmo rinunciare a tanto del nostro presunto benessere), oppure potrebbe davvero soccombere, stritolato nelle pastoie del mondo multipolare di oggi, segnato dal becero nazionalismo-sovranista dilagante. Ripensare il progetto europeo con una prospettiva internazionalista all’interno ed al suo esterno, al servizio delle persone e non dell’agenda corporativa e del mercato globale, è forse la sua ultima speranza di successo.
Infine, è la democrazia in quanto tale a essere a rischio. E non si tratta solo della crisi della rappresentanza tradizionale, della separazione vera dei poteri e quindi dello stato di diritto, che da tempo vive una lunga parabola negativa. C’è qualcosa di più in questa crisi: una parte della popolazione disorientata chiede che pochi decidano e vuole che l’efficienza trionfi sulla “lentezza” della democrazia, purché ci porti fuori dall’emergenza, e che si prosegua così anche nella “futura normalità”. Un’altra parte della popolazione – forse chi questa crisi la sta soffrendo di più, ma anche una parte della classe media che si scopre strutturalmente vulnerabile e dimenticata dallo Stato – sta capendo che la sicurezza va ritrovata nelle relazioni sociali da ricostruire e nelle comunità, perché la crisi non finirà con la risoluzione della questione sanitaria. In nome dell’emergenza prima, e della normalità da ritrovare poi, viene promossa una repressione del dissenso come uno “strumento” necessario per il bene comune. Per altri la messa in discussione della legittimità e del fallimento delle istituzioni di oggi, senza populismo o demagogia, sarà l’unico modo per ripensare una transizione autenticamente trasformativa e democratica.
Queste sono forse le vere partite dei prossimi anni e i duri conflitti sociali che vivremo. Come Re:Common ci saremo, più determinati che mai ad affrontare tutte queste sfide.