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Il chirurgo Paolo Spada: «Covid, Tg e giornali diffondono i dati in modo fuorviante»

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Riguardo al Covid, il chirurgo Paolo Spada commenta i dati e denuncia: “Tg e giornali spesso continuano a diffonderli in modo fuorviante”. Dai confronti fra un giorno e l’altro ai paragoni fra i tamponi di oggi e quelli di sette mesi fa alle classifiche sballate per regioni, ecco le trappole da evitare. Condividiamo con i nostri lettori alcuni stralci dell’articolo uscito su Il Fatto Quotidiano per i dati e le analisi che propone.
Il chirurgo Paolo Spada: «Covid, Tg e giornali diffondono i dati in modo fuorviante»
Il Fatto Quotidiano ha intervistato Paolo Spada, chirurgo dell’Humanitas di Milano che dall’inizio della pandemia si è guadagnato un vasto seguito sui social per le sue analisi dei dati diffusi quotidianamente dalla Protezione civile.

Oggi confronto a ieri? Non ha senso

L’articolo mette in rilievo che «i dati diffusi oggi non riflettono la situazione di oggi, ma di circa due settimana fa», come ha ricordato recentemente su ilfattoquotidiano.it Nino Caltabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.
«L’incremento degli “attuali positivi” diffuso ogni giorno dalla Protezione civile ci dice i tamponi risultati positivi quel dato giorno (sono esclusi dunque i tamponi positivi di controllo delle persone già risultate infette), che quindi sono stati eseguiti nei giorni precedenti, a persone che hanno avuto sintomi, oppure un contatto con un positivo, ancora qualche giorno prima. Quel che è certo è che “non ha alcun senso fare paragoni fra oggi e ieri”, riprende Spada, “anzi, ci porta fuori strada. I risultati dei tamponi risentono di fluttuazioni che nulla c’entrano con l’andamento dell’epidemia, banalmente nel fine settimana ne vengono processati di meno. Ed è scandaloso che ogni giorno i media facciano confronti con il numero di decessi del giorno prima: le notifiche sui morti arrivano a blocchi, da fonti diverse e con tempi diversi”. Quello che ha senso, invece, per comprendere la reale evoluzione dell’epidemia, “è paragonare i dati settimanali”, che si trovano nel “report esteso” dell’Istituto superiore di Sanità e nelle eleborazioni della Fondazione Gimbe».

Le regioni e le province non sono tutte uguali

Si legge ancora nell’articolo de Il Fatto Quotidiano:
«Se poi ci mettiamo a fare confronti fra regioni, o fra l’Italia e l’estero, il minimo sindacale sarebbe almeno rapportare i casi alla popolazione: “Sento i Tg dire che i nuovi casi sono 500 in Lombardia, 500 in Campania, 500 nel Lazio… ma la Lombardia ha più di 10 milioni di abitanti, la Campania meno di sei, il Lazio idem”, afferma ancora Spada. “Quanto meno si dovrebbero diffondere i dati ogni 100mila abitanti sui sette giorni. Le autorità sanitarie lo fanno, ma al cittadino non arrivano”». Analogo discorso viene proposto da Spada anche per le provincie.

I morti non sono tutti uguali

«Riguardo ai confronti internazionali, c’è una complicazione in più: il criterio con cui sono conteggiati i morti attribuiti al Covid-19 cambia da Paese a Paese (in Italia vale la “continuità” fra malattia e decesso, altrove se il decesso avviene oltre i 28 giorni dal tampone non è più attribuito al Covid)».

Non tutti i positivi infettano

«Va letto con attenzione anche il rapporto tra tamponi positivi e pazienti infetti. Non a caso, su indicazione del Comitato tecnico-scientifico, l’ultimo decreto del presidente del consiglio ha mitigato la regola dei due tamponi negativi per essere ufficialmente non infetti e uscire dall’isolamento, che è stato accorciato. Già a fine giugno l‘Organizzazione mondiale della sanità aveva fatto proprie le evidenze scientifiche e aveva stabilito che un soggetto può considerarsi non più contagioso dieci giorni dopo aver trascorso almeno tre giorni senza sintomi. “Ho sollevato la questione già a maggio”, ricorda Spada, “ma il Comitato tecnico-scientifico ha replicato che utilizzava il principio di “massima precauzione”, tanto erano disponibili abbastanza tamponi. Ma in un’epidemia come questa è un principio dannoso: aumenta gli isolamenti domiciliari ed è un disincentivo a sottoporsi al test. Serve ragionevolezza”».
L’articolo del quotidiano prosegue poi con alcuni altri spunti:
«Il punto è che chi ha un tampone positivo al Sars-Cov2 non necessariamente è contagioso. “Abbiamo pazienti che ci mettono cinque mesi per diventare negativi, perché le mucose ci possono mettere molto a smaltire i residui genetici del virus Sars-Cov2”. Ma questi pazienti non sono più in grado di infettare altri da un pezzo. Paradossalmente le macchine che eseguono il test, basate sull’amplificazione del materiale genetico, sono troppo precise, così sensibili da scovare anche frammenti di Rna virale ormai non più attivi. “I tamponi sono efficacissimi per fare la diagnosi di un paziente che presenta i sintomi del Covid-19, ma poi perdono man mano rilevanza e non ci fanno capire chi è contagioso e chi no”, spiega Spada. Tant’è che si registrano di versi casi di negativi al primo tampone di controllo che tornano positivi al secondo».

Il paradosso del sierologico

E ancora:
«Gli studi dicono infatti che il malato è massimamente contagioso da 48 ore prima di sviluppare i sintomi. Quando i sintomi scompaiono del tutto, “dopo 5-6 giorni la contagiosità si abbassa, dopo 10 giorni il virus non è più attivo, anche se ne restano appunto le tracce genetiche”. Ancora più netta la contraddizione per chi fa il test sierologico, quello che rileva la presenza di anticorpi nel sangue. Il positivo viene spedito a fare il tampone, con il rischio di finire in isolamento e di andare a ingrossare il numero dei “nuovi contagiati”, anche se con ragionevole certezza non è più infettivo, dato che gli anticorpi si sviluppano entro una decina di giorni dal contagio. Questi positivi-non contagiosi non solo stanno in quarantena per niente, sottratti all’attività lavorativa, ma finiscono anche nel calderone degli “attualmente positivi” nei dati che ogni giorno leggiamo avidamente nel timore di nuove impennate dell’epidemia e di nuove restrizioni per contenerla».
L’articolista si chiede poi e chiede all’esperto quanto sia davvero simile la situazione di oggi con quella di marzo. 
«Ancora una volta, occhio ai tamponi che, come abbiamo visto, non sono tutti uguali. “Oggi i nuovi positivi hanno caratteristiche diverse”, precisa Spada. “Allora il test si faceva soprattutto a persone con sintomi che si presentavano in ospedale, persino i malati in isolamento domiciliare venivano raggiunti con difficoltà. I tamponi positivi di allora rappresentavano la punta della piramide, cioè i soggetti in condizioni severe, da ricovero in ospedale, o critiche, da terapia intensiva. Parliamo soprattutto di anziani e soggetti fragili”. Oggi invece? Oggi i “tamponati” rappresentano molto meglio la popolazione generale. Non sono più la punta della piramide, ne sono una parte importante”. Dato che il virus in sé a detta degli esperti non si è affatto indebolito, cominciamo così a capire perché sempre l’11 ottobre si sono registrati 26 morti (con tutte le cautele dette), mentre nella seconda metà di marzo, a fronte di un numero di “nuovi casi” simile a oggi, ne contavamo centinaia al giorno: se ne registrarono 969 – novecentosessantanove – solo il 27 marzo. “Oggi i casi severi e critici sono rispettivamente il 5 e lo 0,5% del totale dei Covid positivi registrati, nelle prime settimane erano il 20% e il 5%”, precisa Spada».
«Non c’è solo l’aspetto statistico. “A marzo e aprile la Lombardia e le altre regioni del Nord più colpite hanno pagato l’effetto sorpresa”, cioè l’afflusso improvviso nelle strutture ospedaliere di persone infettate, anche nelle settimane precedenti la scoperta di SarsCov2 in Italia, da un virus allora sconosciuto: “Oggi anche quelli che con sintomi da ricovero sono visitati in modo tempestivo e precoce e possono disporre di cure migliori di allora. All’inizio era tutto buio”. Per non parlare della strage di anziani nelle Rsa, con numeri ancora da accertare pienamente».

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