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Altro che Expo: lo sfruttamento del made in Italy

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Il caporalato e l’infiltrazione mafiosa dietro la produzione agricola italiana. Con la corresponsabilità delle grandi aziende del Nord si continua a produrre sfruttamento di manodopera, con i braccianti ridotti in uno stato di schiavitù…
È uscito il rapporto FilieraSporca che fa luce sulle condizioni di sfruttamento dei braccianti nelle campagne di Sicilia e Calabria.
Un lavoro di analisi condotto congiuntamente dalle associazioni “daSud”, “Terra! Onlus” e “Terrelibere.org” attraverso interviste sul campo, dati e confronto con gli operatori del settore. Mentre a Milano si celebra Expo e si decanta il modello made in Italy, si getta luce su un modello produttivo gestito dai grandi commercianti locali in cui si inseriscono gli interessi dei caporali e della criminalità organizzata.
La realtà è che, come si legge nel rapporto, intere filiere agricole sopravvivono grazie allo sfruttamento del lavoro. Non solo l’Italia ma tutta l’Europa mediterranea produce in condizioni di grave sfruttamento i prodotti ortofrutticoli destinati in gran parte ai mercati del Nord. Il modello si sta estendendo e non risparmia regioni un tempo immuni come ad esempio il Piemonte. Nella filiera delle arance convivono il bracciante agricolo sfruttato e la multinazionale, la grande distribuzione e la criminalità organizzata. Dal ghetto di Rignano (Foggia), alla baraccopoli-tendopoli di Rosarno (Reggio Calabria), fino all’area di Saluzzo (Cuneo), lo sfruttamento ha le stesse caratteristiche: un uso intensivo di manodopera migrante altamente ricattabile; situazioni abitative al di sotto degli standard minimi della dignità umana;  bassi guadagni a fronte di molte ore di lavoro; una  “cultura imprenditoriale” basata sull’illegalità e sulla presenza mafiosa; manodopera organizzata in squadre e capisquadra, con conseguente ricorso al caporalato. I braccianti spesso non vengono pagati, sono minacciati, subiscono aggressioni fisiche e stupri: sono ridotti in schiavitù.
Secondo il rapporto il cuore del problema sono i grandi commercianti: comprano a prezzi irrisori la frutta dai piccoli agricoltori che non hanno alcun potere contrattuale e la rivendono a supermercati e multinazionali.
Spesso sono ditte a conduzione familiare, ma capaci di esportare nel mondo. Talvolta sono coinvolti nelle raccolte, il passaggio cruciale dello sfruttamento: sono proprio loro a rivolgersi ai caporali locali. Nelle campagne di Paternò, vicino Catania, sono arruolati anche i minori per la raccolta delle arance: prezzo a giornata 15 euro. A denunciarlo a febbraio 2014 è stata la Cgil di Catania con un esposto presentato alle autorità.
La manodopera nelle campagne viene organizzata in squadre e capisquadra, che diventano gli interlocutori unici per pagamenti e dispiegamento dei lavoratori nei campi. Mentre i medi produttori ricorrono direttamente ai caporali, le realtà più grandi preferiscono rivolgersi a strutture formalmente legali come le “cooperative senza terra”. Sono formate sia da italiani che stranieri, non producono ma offrono servizi come la potatura e raccolta. Spesso sono aziende serie, altre volte forme di caporalato mascherato. Dietro un contratto formale con l’azienda committente, infatti, possono nascondersi lavoro nero, decurtazione delle buste paga, evasione contributiva.
I controlli vengono evitati attraverso escamotage. Formalmente i braccianti non superano mai i cinque giorni di lavoro a settimana. Oltre questo limite, infatti, scattano i controlli. Nelle campagne il lavoro nero è sostituito da quello “grigio”. Un contratto c’è, ma serve al datore di lavoro come scudo per le verifiche: è sufficiente segnare poche giornate e nessuno potrà contestare. Spesso è una tripla truffa: capita infatti che un piccolo proprietario non paga il lavoratore, non paga i contributi Inps dovuti e guadagna dalla disoccupazione come falso bracciante.
“Nell’anno di #Expo2015, attraverso #FilieraSporca chiediamo un impegno alle imprese e alle istituzioni attraverso la responsabilità solidale delle aziende, che devono rispondere per quanto avviene anche nei livelli inferiori della filiera – ha dichiarato Fabio Ciconte di Terra!Onlus -, e soprattutto chiediamo una normativa sull’etichetta trasparente e l’elenco pubblico dei fornitori, perché informazioni trasparenti permettono ai consumatori di scegliere prodotti liberi da sfruttamento. Vogliamo incontrare il Ministro Martina per poter discutere le nostre proposte e, a partire da oggi, avvieremo una campagna pubblica in cui coinvolgere associazioni e singoli cittadini per una filiera trasparente”.
I promotori della campagna hanno chiesto ai grandi marchi della distribuzione e della produzione come Coop, Coca Cola, Conad e Nestlé, chiarimenti riguardo all’impegno contro il lavoro nero e la trasparenza nei confronti dei vari passaggi che portano i prodotti dalla campagna agli scaffali dei supermercati. Coca cola ha reso pubblici per la prima volta la lista dei propri fornitori italiani, mentre Coop ha descritto i meccanismi messi in atto a livello contrattuale per limitare il rischio di irregolarità tra i suoi sub-fornitori. Per quanto riguarda Nestlé, non ha ancora risposto. Il Gruppo Sanpellegrino, invece, vincola i propri fornitori al rigoroso rispetto di un codice di comportamento.

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