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Dossier. Vivere senza bollette… /2a parte

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Vivere senza bollette… e tanti altri modi per uscire dalla griglia. Riflettere, scegliere, decidere, agire per un nuovo paradigma che sia veramente e urgentemente rivoluzionario. Ricostruendo le comunità e accogliendo la complessità.
Dossier. Vivere senza bollette… /2a parte
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2a parte

Di esperienza si vive e si cresce

Scegliere, agire, vivere, cimentarsi, mettersi alla prova, programmando, realizzando, verificando, osservando. Anche così si avanza, ci si affranca da certi legacci, si mettono in pratica e si rendono vere, praticabili e reali le opportunità che abbiamo ma che spesso avvertiamo inaccessibili o troppo “impossibili” per noi. Qui trovate qualche esempio di persone che hanno agito e che si raccontano.

Vivere senza bollette: l’autosufficienza energetica

È possibile non dipendere da una rete centralizzata che eroga servizi subordinandoli a determinate condizioni e tariffe? Oggi di fatto la situazione è questa: risorse fossili sempre più limitate e a prezzi sempre più alti, con un sistema di estrazione, distribuzione ed erogazione che assoggetta di fatto il “consumatore finale” a una serie di imposizioni, condizioni e tariffe decise dall’alto. Come uscirne? Che significato potenziale avrebbe smarcarsi quasi completamente da questa “griglia”?
«Con il cosiddetto boom economico degli anni Sessanta è iniziato un totale assoggettamento delle persone al sistema industriale» spiega Paolo Ermani, presidente dell’associazione Paea per le energie rinnovabili. «Da una parte lo hanno alimentato le persone stesse con il loro lavoro, dall’altra ne sono diventati dipendenti pressoché completamente: per il cibo, l’energia, lo svago, le relazioni, la cultura. Ma trasformare e far percepire tutto come merce non significa progresso; anzi, è il contrario, perché così si regala la propria esistenza a chi detiene soldi e potere e si diventa “ostaggi” di una manciata di multinazionali che decidono ogni nostro respiro. In questa logica basta una catastrofe ambientale, una virata politica, oppure uno stato di emergenza con relative misure “urgenti e indiscutibili”, per chiuderci il rubinetto delle fonti fossili che è saldamente in mano proprio alle multinazionali. E ci si accorgerà che siamo totalmente dipendenti anche perché non sappiamo fare più nulla. Del resto a non fare più nulla ci prepara ormai fin da bambini l’attuale modo di fare scuola, che insegna tanto, tranne ciò che serve veramente. Così un bambino o un ragazzo, oltre che rimanere chiuso dentro quattro mura durante gli anni della sua vita più bisognosi di movimento, non sa nulla di come si coltiva la terra, non sa quali sono le energie rinnovabili o le caratteristiche del suo territorio, non sa ripararsi niente, non conosce nemmeno la basi per sapere come funziona il suo corpo e come funzionano i processi naturali fondamentali. E questo lo porterà a essere dipendente per ogni aspetto della sua vita reale».
«La soluzione quindi non può che essere la costruzione di una società fondata sull’indipendenza, sulla conoscenza, quella vera e utile, sul saper fare, sulla tutela di persone e ambiente, sull’autosufficienza» prosegue Paolo. «Per costruire una società del genere in un paese come l’Italia abbiamo tutto: conoscenze, tecnologie, capacità, intelligenza e una natura ricchissima. Però dobbiamo fare necessariamente un passaggio mentale, cioè convincerci che noi possiamo. Che unendoci agli altri e unendo competenze, lavoro, idee, capacità possiamo costruire una società dedicata al benessere per tutti e non al profitto per pochi».
Off grid, uscire dalla griglia
Un esempio di off grid efficace e intelligente è il PeR, il Parco dell’Energia Rinnovabile, in Umbria.
«Al PeR abbiamo realizzato un modello che diffondiamo, raccontiamo, mostriamo attraverso le nostre attività divulgative proprio per dimostrare che è possibile uscire dalla griglia» spiega Alessandro Ronca, direttore scientifico del PeR. «Possibile, anzi possibilissimo e reale, ma non per tutti. O almeno, non è pensabile muoversi in questa direzione se prima non si lavora in maniera scrupolosa sulla nostra abitudine a consumare risorse. Il primo passo consiste nel non delegare a un tecnico o a un professionista questo compito, ma rimboccarsi le maniche e prendere di petto la questione. Solo dopo aver compiuto una serie di azioni, di osservazioni e di scelte, ci si potrà rivolgere a un professionista. Molte volte mi è capitato di ragionare con persone o con famiglie che sognano l’autosufficienza ma che premettono subito che di energia elettrica, di idraulica o di isolamento termico non capiscono nulla e nemmeno interessa loro saperne di più; eppure vogliono essere indipendenti. Questa contraddizione rappresenta il primo e maggiore ostacolo, poiché così diventa quasi impensabile raggiungere l’obbiettivo, se non a costi per molti proibitivi. Personalmente ritengo, soprattutto in ambito di autosufficienza, che se si utilizza per esempio l’energia elettrica bisogna conoscerne i principi, così come dell’idraulica e in definitiva di tutte quelle tecnologie di cui necessitiamo. Bisogna insomma responsabilizzarsi, essere consapevoli e informati».
«È prioritario smettere di pensare che “non siamo capaci”» aggiunge Ermani «ce lo vogliono far credere, ma non è così. Invece va favorita l’autonomia dei cittadini».
«Dopo avere appreso almeno i rudimenti di ciò che ci è utile» prosegue Ronca, «dobbiamo passare ad analizzare in maniera accurata e dettagliata tutte le apparecchiature e tecnologie che utilizziamo quotidianamente e misurare per quanto tempo le facciamo funzionare e come, per poter avere uno schema che rappresenti in maniera precisa i nostri reali consumi energetici. Così facendo, spesso ci si rende anche conto degli sprechi e di ciò a cui si può rinunciare. Semplice è bello e duraturo è meglio, oltre al fatto che è inutile fare con più ciò che si può fare con meno».
«Dopo il passo della riduzione dei consumi, si può procedere con l’efficientamento tecnologico, le energie rinnovabili o con l’eliminazione delle tecnologie ridondanti. Altro passaggio importantissimo è ipotizzare un piano b per la propria abitazione, ossia avere anche sempre pronta una contromisura pianificata low tech in caso di avaria del sistema autosufficiente che si è installato».
«Dobbiamo porci nell’ottica di un uso consapevole delle energie; finché siamo attaccati alla rete pensiamo che l’energia sia infinita, basta che si paghino le bollette, peraltro sempre più salate» conclude Ronca. «Invece non è così, se arrivate ad autoprodurre ciò che consumate, ecco che vi accorgete subito che c’è un limite che non va superato; è come il limite naturale che hanno le risorse di questo meraviglioso luogo chiamato Terra. Che dobbiamo rispettare».

Autoproduzione, solidarietà, comunità

Tessere relazioni e scambi, coltivare l’aiuto reciproco e il senso di comunità può fare la differenza e portare verso una sempre maggiore autosufficienza e autonomia. Ciò può accadere creando un vero e proprio ecovillaggio, ma anche semplicemente condividendo intenti e parte del quotidiano con qualcuno che abita vicino a noi, oppure ancora in una famiglia aperta e allargata o creando reti di ecovicinato.
L’ecovillaggio
“Tempo di vivere” è un ecovillaggio che ha mosso i primi passi nell’estate 2010 con una piccola comunità spontanea. «Attorno a un tavolo su una meravigliosa terrazza panoramica, ci siamo incontrati per parlare dei nostri sogni, della ricerca comune di un significato più profondo nelle nostre esistenza e di ciò che avremmo voluto dalla vita per essere felici» spiega Katia Prati, una delle fondatrici. «Abbiamo intuito che poteva diventare realtà quotidiana: un luogo in cui vivere, un progetto creato insieme, in cui esplorare talenti e passioni per metterli al servizio del collettivo».
Nel 2011 nasce quindi un’associazione no profit, spiega Katia, «e nel 2014 abbiamo individuato un casale in affitto dove poterci mettere alla prova. Io e il mio compagno avevamo già una casa, un figlio, lavori sicuri; Gabriella e Antonio vivevano una situazione simile ma a noi non bastava. Dunque abbiamo compiuto una scelta maturata con amore, entusiasmo e passione. Nel tempo sono passate molte persone, alcune hanno scelto di fermarsi e si sono impegnate a far crescere il progetto. E sono cambiate le modalità con cui portiamo avanti la nostra realtà, alcune rigidità si sono sciolte, l’osservazione degli errori fatti è diventata stimolo a cambiamenti utili».
Sul fronte dell’organizzazione quotidiana, «non abbiamo turni, ma facciamo settimanalmente una riunione organizzativa in cui stabiliamo i compiti da portare a termine, date di scadenza e creiamo gruppi operativi. Per cucina, pulizia, animali, bambini, ci affidiamo gli uni agli altri. Non abbiamo lavori esterni o economie private, ognuno di noi fa ciò che sa e ama fare e lo fa per sé e per l’insieme. Ogni attività ha lo stesso valore, sia quelle che portano concretamente una liquidità economica (corsi di formazione, eventi residenziali, progetti internazionali ecc.), sia quelle che si prendono cura della collettività (orto, cucina, homeschooling ecc.), cerchiamo di ruotare i nostri ruoli in un’ottica di condivisione e sostegno reciproco e lasciamo spazio ai nuovi arrivati. Gestiamo diverse attività, come autoproduzioni per l’igiene personale e della casa, mediazione, facilitazione di gruppi, cucina naturale, orto, piccolo artigianato e molto altro. La cura e la crescita dei bambini è affidata al gruppo. Da qualche tempo si sono trasferiti vicino a noi famiglie di amici homeschooler con progetti individuali e comunitari e stiamo creando una bella rete di scambio e supporto anche sul territorio».
Katia vede oggi «molte persone che vorrebbero scappare dalla realtà attuale, ma è importante non dimenticare che ogni cambiamento deve essere supportato da un reale processo interiore di consapevolezza».
Reti di vicinato
Ci sono poi innumerevoli famiglie che nel nostro paese hanno scelto di trasferirsi lontano dalle città, magari in campagna o in montagna per respirare aria buona, ritrovare i ritmi della natura e ritrovare relazioni più sincere con i figli e con il vicinato, senza farsi per forza condizionare dagli schemi imposti dalla società. In questi casi, di solito, si parla non di veri e propri ecovillaggi ma di comunità diffuse, dove ogni famiglia ha la propria casa, salvaguarda la propria intimità e individualità ma allo stesso tempo mette a disposizione della comunità locale talenti e conoscenze. Ed ecco allora che gli acquisti, non solo alimentari, si fanno con i gruppi d’acquisto magari rivolgendosi di preferenza a chi in quella zona si occupa di coltivare la terra o allevare animali, si cercano fonti energetiche alternative per essere il più possibili autonomi, si osserva e si studia il territorio circostante per utilizzare le risorse che offre. Ciò può comunque avvenire, e sta già avvenendo, anche nelle città dove nei quartieri nascono e si organizzano gruppi di vicinato solidale.
Famiglia a impatto positivo
Elena Piffero vive con il marito e i quattro figli nelle campagne modenesi, ha scelto di puntare all’essenziale, coltiva l’orto, alleva galline e api, i figli seguono l’approccio dell’unschooling e «siamo ricchi di tempo insieme, di condivisione, chiacchiere e musica, aria aperta e attività che ci fanno stare bene» spiega Elena. «Il nostro quotidiano è vivace, la casa e il giardino sono “selvaggi” ma pieni di vita, fuori erbe spontanee fiori selvatici e tantissimi insetti e dentro pentole, barattoli, manovelle, teglie e taglieri, libri, fumetti, disegni e matite, strumenti musicali, la porta aperta al via vai di amici e apprendisti anglofoni delle non-lezioni di inglese con cui ci manteniamo».
Non è sempre semplice, spiega Elena, «ci sono anche rinunce ma ciò è dovuto all’assoluta inadeguatezza del sistema commerciale, di relazioni e dei trasporti, per nulla a misura di chi vuole fare scelte differenti e non impattanti». «Comunque, con una buona dose di determinazione e creatività anche le difficoltà possono diventare occasioni per creare reti. Scambiamo con gli amici prodotti dell’orto, miele e cose che autoproduciamo, si mettono a disposizione utensili e macchinari che si usano raramente per chi ne avesse bisogno e persino un’auto a sette posti prestata quando serve diventa un pretesto per rinsaldare una relazione di amicizia.È bello perché si finisce per attrarre altre persone e famiglie in ricerca, si impara che da soli non si arriva da nessuna parte e si accetta di aver bisogno degli altri, così ci si riconnette. Si ricrea una comunità insomma, di supporto e anche di vero e proprio affetto reciproco nei variegati modi e nei tempi che ciascuno può offrire. E i figli, per natura empatici e sensibili, capiscono sempre la ragione profonda delle scelte consapevoli di coerenza».

Un nuovo sguardo al senso dell’educazione

Parlare di educazione rimanda naturalmente alla scuola e, in quest’epoca, a situazioni in cui i bambini, invece di socializzare attraverso il contatto con gli altri, la vicinanza anche fisica, gli scambi percettivi sensoriali, il gioco comune, l’imitazione spontanea, sono costretti al distanziamento e impossibilitati a vedere l’espressione del volto di chi hanno di fronte, che spesso diviene sorvegliante più che pedagogo.
«Siamo entrati velocemente nell’era dell’homus sanitario, dobbiamo esserne consapevoli. Un’era in cui pare che gli educandi siano visti come soggetti da medicalizzare» sottolinea non senza una certa amarezza Cecilia Fazioli,FOTO6pedagogista, counselor, co-fondatrice di una scuola parentale e oggi consulente per diversi progetti che vanno in questa direzione. «E questo si innesta su un impianto educativo già fondato su una prassi omologante; chiunque non risponda alla visione educativa “da protocollo” viene considerato sbagliato. Invece l’educazione dovrebbe sostenere il processo identitario del bambino. Di fronte a una società smarrita e terrorizzata, si inducono bambini e ragazzi ad aggrapparsi a illusorie sicurezze, a stare sulla superficie con il rischio di perdere il senso della propria esistenza e così il controllo del proprio destino. Non essere capaci di attingere alle proprie risorse, quindi dipendere da processi indotti, significa rinunciare alla possibilità di essere liberi e all’autenticità».
«C’è poi una inesorabile demolizione delle origini e ciò non aiuta a coltivare le radici di cui tutti necessitiamo per rimanere in piedi e restare umani» prosegue Cecilia. «L’ideologia del progresso senza identità invece della valorizzazione della persona preclude lo sviluppo del senso di appartenenza. Educare alla frammentazione del sé giova a un sistema che del controllo fa il suo scopo principale».
C’è bisogno di esperienze autentiche
Cosa fare dunque? «Occorre incentrare il lavoro educativo esercitandosi nell’umiltà, nell’ascolto e nel coraggio creativo e sto seguendo diversi progetti che hanno queste caratteristiche. Diviene un imperativo allestire vere e autentiche esperienze, affinché il virtuale sia esperienza successiva, quando la coscienza ha preso la forma adulta. La tecnologia utilizzata in età sempre più precoce crea dipendenza e il bambino si smarrisce».
«Stiamo rischiando di trasformare l’educazione e la scuola nell’ambiente dove il capitalismo dell’informazione organizza contenuti e contenitori. Quindi è urgente aprirsi a nuovi paradigmi, cercare spazi e luoghi di rottura con un sistema sociale, culturale e economico che insegna a dividere e comandare, a rincorrere bisogni effimeri. È necessario sbarazzarsi di testi che sono un impasto di ideologie e pensiero unico, meglio allestire contesti e atmosfere di apprendimento che offrano una strada per tutti. E non si formano i bambini con i laboratori il cui fine è il lavoretto, sotto lo stretto controllo dell’adulto, ma per superare questo l’io adulto non può restare imprigionato nelle pseudo verità che il sistema offre, deve uscire dalla propria zona di comfort, essere autentico, consapevole, coraggioso, onesto, coerente. È di questi valori che hanno bisogno bambini e ragazzi».
Per Cecilia Fazioli importantissimo è anche «il rispetto della libertà di pensiero, perché bambini e ragazzi non divengano semplici rotelle di un ingranaggio. Piace tanto la parola inclusione, ma poi, con evidente incoerenza, si chiude la porta in faccia a chi esprime dubbi. Gli educatori devono darsi valore e riconoscerlo ai bambini, altrimenti si fa solo addestramento».
Nuovi spazi, occasioni di sviluppo
«La vita educativa oggi tende a escludere chi non è inquadrabile in qualche forma di categoria, ma le persone motivate si ritagliano spazi che nessuno ha ancora occupato e che non tolgono occasione di sviluppo ad altri» spiega Francesco Bernabei, sviluppatore sociale impegnato in ambito educativo. Infatti, in questi ultimi tempi sono aumentate le richieste delle famiglie di nuove risposte all’interno della scuola statale ma anche i progetti di esperienze educative al di fuori di essa.
«Per quanto riguarda l’istruzione parentale, la domanda è cresciuta e ritengo sia l’inizio di una nuova fase che può liberare energie sociali che erano sopite o non ancora pienamente riconosciute» prosegue Bernabei. «Ci sono tante persone capaci che sarebbero in grado di unirsi ad altre e far partire percorsi sociali e civili di risposta a bisogni vecchi e nuovi e che rappresenterebbero una terza via, assolutamente praticabile ed economica, fra lo Stato che fa assistenza e il privato che la vende con servizi a pagamento. È importante dare ossigeno, e non soffocare o reprimere, tutti i nuovi attori sociali che nascono nelle situazioni di difficoltà, perché sono estremamente adatti a rispondere in modo elastico ai bisogni nuovi».
Segnaliamo anche il progetto attivo ormai da diversi anni “Tutta un’altra scuola”, coordinato da Terra Nuova, che nel tempo ha cercato di mettere in rete realtà educative all’avanguardia, sia statali che non, anche molto diverse e lontane fra loro: www.tuttaunaltrascuola.it.

Un’altra economia

I tentativi di realizzare qualcosa di più etico e meno utilitaristico rispetto al sistema economico finanziario dominante hanno visto nascere, negli anni, istituti di credito virtuosi come Banca Etica ed esperienze della cosiddetta Mutua AutoGestione, cioè le Mag che permettono l’accesso al credito di soggetti che verrebbero ritenuti “non bancabili” dal circuito convenzionale (si veda il paragrafo 2, Denaro e finanza).
Poi ci sono i sistemi di credito mutuale propriamente non monetari, e qui si entra in un paradigma completamente differente, come spiega Maurizio Ruzzene, coordinatore del gruppo di studio e ricerca che anima Retics, una realtà che ha messo in relazione le varie esperienze di “monete altre”, complementari e sociali o comunitarie attive in Italia, anche se appunto il termine “monete” non rende appieno la base su cui queste realtà fondano la loro azione.
«Nel nostro paese sono attive diverse esperienze che hanno sviluppato un sistema virtuoso di crediti mutuali propriamente non monetari» spiega Ruzzene, «si va dalle Banche del tempo, ad Arcipelago Scec, al circuito Sardex e ad altri minori.
«Le banche del tempo aiutano a praticare lo scambio di attività valutate equamente in unità di tempo-lavoro, a prescindere dal tipo di attività o lavoro svolto. E hanno la loro funzione principale nel ricostruire relazioni di comunità in ambito locale, alimentando pratiche di cooperazione e solidarietà in ambienti dove prevalgono logiche competitive, caratterizzate da ampi fenomeni di emarginazione e isolamento individuale. Per lo Scec, sostanzialmente un buono sconto circolante, l’obiettivo prioritario è stato quello di sostenere non solo i singoli e le famiglie, ma anche le imprese, cercando di affrontare la mancanza di liquidità e rivitalizzando legami di scambio sul proprio territorio, anche per contrastare gli effetti più negativi della globalizzazione economica» prosegue Ruzzene.
Poi c’è appunto il Sardex «che è destinato principalmente alle imprese ma sviluppa anch’esso crediti mutuali: le imprese scambiano beni e servizi a livello locale, ricostruiscono relazioni di fiducia tra di loro e non fanno uso di moneta durante gli scambi, applicando di fatto il sistema del baratto, regolato dai principi della compensazione periodica dei crediti di tutti gli aderenti. Infine, in una fase di crisi molto grave, tutto questo è stato di grande aiuto all’economia sarda, particolarmente bisognosa di forme di sostegno che si possono autoalimentare dal basso.
Si può dire che questi tre modelli di scambio sono risultati importanti per più ragioni. Perché hanno cercato di conciliare la dimensione locale con la dimensione nazionale. E soprattutto perché dal recupero e dalla combinazione di alcuni dei loro elementi principali sono derivate tutta una serie di sperimentazioni, specie nell’ambito delle pratiche eco-solidali del nostro paese: dal BUS (il Buono di Uscita Solidale nel Distretto dell’economia solidale di Reggio Emilia) alla Rete di Mutuo Credito, dal progetto “Mi fido di noi” (del Des Brianza) all’Ora (Oltremercato, di Pesaro e Urbino)».
«Tutte le esperienze ricordate qui hanno partecipato in modi diversi al progetto Laboratorio Monete e alle scuole estive promosse negli ultimi anni da Retics » aggiunge Ruzzene (per chi volesse farsi un’idea è consultabile il sito www.retics.org).
«Ritengo sia ormai essenziale, in questa epoca di crisi profonda e diffusa, cercare di diffondere relazioni in grado di ridimensionare l’uso della moneta, la quale vive di vita propria e impone le sue regole impadronendosi di fatto della nostra esistenza» prosegue Ruzzene. «Accogliere e praticare il sistema del credito mutuale significa ridare valore a chi lo genera, a chi lo alimenta, e a chi cerca di ripianare le proprie relazioni di credito e debito, con tutto ciò che questo richiede, in termini di cura, di tempo, e di responsabilità. Sono i principi su cui dovrebbe fondarsi un’economia sostenibile del prendersi cura, di sé, degli altri, del territorio. Dunque, occorre porsi come obiettivo proprio questo: un nuovo modo di produrre valori e di mettersi in relazione, che non può essere di tipo monetario e che deve metterci nelle condizioni di non essere più succubi del denaro e della speculazione finanziaria».

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