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Equità e solidarietà, pilastri da riscoprire

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Fino al 31 maggio a Milano, alla fabbrica del vapore, si tiene la manifestazione dedicata al commercio equo e solidale nell’ambito della settimana dedicata. E il punto sul settore rilancia l’equità e la solidarietà come pilastri di questo settore.
Fino al 31 maggio– allaFabbrica del Vapore, in via Procaccini 4 – c’èMilano Fair City, la più grande fiera del Commercio Equo e Solidale mai organizzata. Facciamo il punto con il presidente di Agices-Equo Garantito, Alessandro Franceschini. QUI il programma completo.
Il commercio equo e solidale è profit o non profit?
La Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale, che è un po’ la Costituzione del nostro Movimento, parla chiaro: essere riconosciuti come organizzazioni Equo Garantite bisogna essere senza scopo di lucro. Le migliaia di volontari, i soci, i lavoratori di tutte le organizzazioni che operano in Italia sono quindi appieno inserite nel Terzo Settore e sono senza finalità di lucro. Altra questione riguarda il commercio equo fondato sulla certificazione di prodotto, che per sua stessa natura è aperto anche ai soggetti dell’economia tradizionale.
E che ruolo hanno tutti i volontari delle botteghe ad esempio: senza di loro mi sembra che i conti torni non tornerebbero?
Con la risposta vorrei capovolgere totalmente la domanda: quale altro tipo di attività economica e commerciale riesce a dare alle persone una motivazione così forte da far loro impiegare il tempo senza un guadagno personale? Il volontariato è parte integrante del sistema equo e solidale e non ha tanto senso pensare ad una sostenibilità senza i volontari perché non si parlerebbe più di movimento ideale e di sensibilizzazione, ma solo di una rete di negozi: allora il discorso cambierebbe. Detto questo sicuramente senza il volontariato dal punto di vista squisitamente economico in questa fase non ci sarebbero i margini per una sostenibilità di molti punti vendita, ma ripeto che è proprio il volontariato il motore del meccanismo, non un suo ingranaggio.
Perché ci tenete a definirvi Movimento del Commercio Equo e Solidale? Esiste o è esistita una dimensione politica del Commercio Equo e Solidale?
Decisamente sì. E direi mai come oggi: il Commercio Equo e Solidale infatti non solo ha prodotti da offrire, ma vanta anche un portato di idee e proposte per migliorare l’economia a livello globale. Non siamo più una testimonianza, ma la prova provata che fare commercio secondo altre regole che non siano il profitto e la massimizzazione degli utili è possibile e porta reali benefici. Per questo saremo a Milano nel periodo dell’Expo: con molti contenuti e proposte vogliamo partecipare al dibattito sul modello di sviluppo possibile. Posso anche affermare che dopo anni in cui la crisi economica ci aveva fatto ripiegare sulla badare alla sostenibilità delle nostre Organizzazioni, oggi ricominciamo a guardare lontano e a puntare di nuovo sui temi più ideali della nostra proposta.
Che cosa è Agices e quali sono le priorità del ComES Italiano?
AGICES – Equo Garantito è allo stesso tempo l’organizzazione di categoria delle cooperative e associazioni di commercio equo e solidale e l’organo di controllo che grazie ad un sistema di monitoraggio certificato può dare garanzie ai consumatori sulla condotta dei propri aderenti. Per essere soci infatti le organizzazioni devono rispettare tutti i requisiti della carta dei criteri del commercio equo e solidale. In questo senso AGICES vuole promuovere sempre di più in Italia il commercio equo fondato sulle organizzazioni e su relazioni dirette tra consumatori e produttori per costruire un’economia più giusta e capace di futuro. Tra le altre priorità c’è quella di instaurare un dialogo con l’economia solidale e permettere la maggiore integrazione delle nostre organizzazioni nelle reti; lavorare perché sia approvata una legge nazionale che disciplini il settore; garantire la sostenibilità economica dei nostri soci e sostenere l’allargamento del mercato del Commercio Equo.
Qual è – se esiste – la “via italiana” al Fair Trade? Il commercio equo italiano è un esempio nel mondo: perché?
Esiste eccome, e non a caso l’Italia è stata scelta dalla WFTO (l’Organizzazione mondiale del commercio equo e solidale) per ospitare l’assemblea globale che si tiene ogni due anni. Il commercio equo italiano è fortemente fondato sulle Organizzazioni più che sui sistemi di certificazione di prodotto ed ha quindi una forte presenza sul territorio e una capacità di fare movimento, di proporre idee, di organizzare iniziative. C’è poi un aspetto tecnico interessante: il nostro sistema di monitoraggio è stato preso ad esempio a livello globale da WFTO e la rete di botteghe socie di AGICES – Equo Garantito è stata la prima al mondo ad essere riconosciuta come sistema di controllo compatibile con gli standard internazionali. Per questo adesso sulle vetrine delle nostre botteghe appare accanto al logo di Equo Garantito anche quello dell’Organizzazione Globale. Un altro fattore non trascurabile né casuale: l’attuale presidente di WFTO globale, Rudi Dalvai e di WFTO Europa, Giorgio Dal Fiume, sono italiani. È forse un indiretto riconoscimento al profilo alto che ha sempre caratterizzato la via italiana al Fair Trade. 
Quali sono secondo lei pregi e i difetti del Movimento italiano del Commercio Equo e Solidale?
Cominciamo dai difetti: troppa divisione in organizzazioni tutte autonome tra di loro e spesso con comportamenti commerciali e strategici contrastanti da cui deriva una scarsa capacità di fare sistema: un certo invecchiamento della classe dirigente delle Organizzazioni; la difficoltà di capire, molto spesso, cosa chiedano i consumatori in termini di prodotti, servizi, informazioni; il non aver ancora trovato per le nostre botteghe un posizionamento specifico nel mercato del commercio al dettaglio e una fisionomia riconoscibile da tutti.
Tra i pregi c’è la grande vitalità delle organizzazioni e la capacità di guardare al futuro. Per esempio, nella scelta politica di aprire a prodotti provenienti da economia sociale italiana vedo l’indicatore di quanto queste nostre organizzazioni sappiano trattare il tema dello sviluppo sostenibile in modo complessivo e in prospettiva. Un altro elemento di forza è l’aver dimostrato sul campo che le pratiche economiche del settore equo e solidale non sono solo teorie o buone intenzioni, ma riescono a creare consolidate esperienze commerciali ed economiche che portano beneficio a milioni di produttori e nuova sensibilità ai consumatori italiani. Tra i pregi c’è, infine, la versatilità, la resistenza anche di fronte a periodi difficili, e la capacità di stimolare un dibattito interno adatto a creare nuove prospettive.
La Lombardia sta per approvare in questi giorni una legge che aiuterà forse lo sviluppo del Commercio Equo e Solidale? Che importanza ha questa legge?
Già oltre la metà delle Regioni italiane hanno una legge sul commercio equo e solidale e stiamo lavorando anche sul piano nazionale per una normativa complessiva. La Lombardia è la regione in cui c’è il maggior numero di organizzazioni di commercio equo e solidale, ed è anche la zona d’Italia che produce il maggior fatturato: il fatto che mancasse una legge proprio in questa regione era, secondo noi, particolarmente problematico e per questo le Organizzazioni si sono mosse per avviare il percorso di una normativa di iniziativa popolare. Le leggi sul commercio equo hanno in generale tre obiettivi: il riconoscimento del nostro modo di fare economia e commercio; la tutela rispetto a tante realtà che equo solidali non sono, ma che cercano di saltare sul carro della sensibilità dei consumatori rispetto a questi temi; infine la promozione delle attività e dei progetti delle organizzazioni.
Il commercio equo e solidale in Italia ha un valore di circa 200 milioni di euro (fonte rapporto Agices) con una percentuale di distribuzione che varia dal 2 al 5%. Che cosa si può fare per aumentare la fetta di mercato?
Tre parole chiave: informazione, informazione e ancora informazione! Nel senso che l’unica nostra modalità per aumentare le quantità di mercato sono quelle di rendere i consumatori più sensibili al tema dello sviluppo sostenibile a livello soprattutto sociale, ma anche ambientale. Dobbiamo quindi far loro conoscere la rete delle nostre botteghe. Ci sarà poi da rivedere la nostra rete distributiva, perché è troppo discontinua la presenza sul territorio tra le varie zone d’Italia (con una presenza molto scarsa al Mezzogiorno) per cui in alcune zone un consumatore rischia di avere la prima bottega equa a 100 chilometri da casa. Vorremo anche ragionare sui miglioramenti della struttura commerciale della nostra filiera puntando ad una maggiore efficienza generale della rete, pronta così ad affrontare la crescita del mercato. Le potenzialità ci sono tutte. 
Come si può attrarre il consumatore medio al vostro mercato?
Noi abbiamo un biglietto da visita che può interessare anche il consumatore meno sensibile ai temi dello sviluppo sostenibile: la qualità dei nostri prodotti, accanto alla loro storia che parla di dignità del lavoro ad ogni latitudine.
Come sta cambiando la sensibilità dei consumatori italiani?
Anche la recente crisi economica ha contribuito a cambiare la sensibilità di molti consumatori: prima di tutto ci si rende conto del grande ruolo che ciascuno di noi ha nell’influire con i propri consumi sull’economia globale. È quindi aumentata la percezione del proprio potere d’acquisto non solo in termini economici, ma anche politici. L’attenzione non è più legata solo ai temi dell’ambiente e del benessere della persona, ma anche alle condizioni di lavoro dei produttori.
Molti si rendono conto che è assolutamente insensato uscire dalla crisi adottando l’identico sistema economico e di relazioni tra commercio e finanza che a quella crisi ha portato. Bisogna cambiare a partire dalla spesa di ogni giorno. Direi quindi che l’impostazione rispetto a vent’anni fa è meno solidaristica -intesa come solo aiuto ai produttori- e più attenta al complessivo scenario economico
Che cosa è EquoGarantito e cosa significa la vetrofania esposta nei punti vendita?
Equo Garantito è innanzitutto un marchio per i consumatori, perché sappiano che le botteghe e le Organizzazioni che lo espongono sono controllate e rispettano la Carta Italiana dei Criteri del commercio equo e solidale con un sistema di monitoraggio certificato da un ente esterno e terzo. Ma c’è di più:  Equo Garantito, infatti, vuole essere il cognome comune del movimento che riunisce tutte le organizzazioni di commercio equo e solidale socie, siano esse importatori o botteghe. Tra i soci di Equo Garantito ci sono le principali organizzazioni italiane di commercio equo solidale e i principali importatori. È decisamente giunto il  momento di unire le forze sotto un’unica bandiera. Ben riconoscibile all’esterno.
Nel programma di Wftw si legge di “Domestic Fair Trade”. Ci spiega quale ruolo avrà durante la settimana del commercio equo e solidale?
È forse tra gli elementi più interessanti e strategici del momento, ossia l’apertura del Commercio Equo italiano all’economia solidale, una sorta di Commercio Equo nord-nord accanto al tradizione sud-nord. Nelle nostre botteghe quindi non saranno più presenti solo i produttori e i prodotti del Sud del mondo, che comunque dovranno essere e restare prevalenti, ma il commercio equo aprirà le porte sempre più a progetti di Economia Solidale: cooperazione sociale, economia carceraria, terre confiscate alla mafia. In poche parole vogliamo che chi entra in una bottega equo garantita capisca da subito che l’elemento forte che ci caratterizza è il rispetto delle condizioni di lavoro e di produzione ad ogni latitudine: perché solo da un lavoro rispettoso dei diritti potrà nascere una nuova economia più sostenibile sia in Italia che nel Sud del mondo.
Sul vostro sito è attiva una campagna contro il TTIP -Transatlantic and Investment Partnership- e il CETA -Comprehensive Economic and Trade Agreement-. Che cosa cambierebbe per il commercio equo e solidale se questi due accordi dovessero essere ratificati dai Paesi Eu come il nostro?
Dal nostro sito si può scaricare un “Quaderno del commercio equo e solidale” monografico proprio su questo accordo. In una battuta possiamo dire che questi accordi sono il contrario speculare del commercio equo e solidale. Noi vogliamo infatti che il mercato abbia delle regole a protezione di tutti i soggetti della filiera produttiva, a partire dai produttori delle materie prime. La liberalizzazione dei mercati e l’assenza di regole e di controllori sono state proprio le cause della crisi che da sei anni ha messo in seria difficoltà l’economia di mezzo mondo. Noi abbiamo molte idee su come superare la crisi con tutt’altri presupposti, e la settimana di Milano vuole proprio dettare una nuova agenda per riuscire a “nutrire il pianeta” partendo proprio dall’esperienza del Fair Trade.
Ad intervenire è anche Giorgio Dal Fiume, presidente della World Fair Trade Organization Europe
L’Europa è la culla del Fair Trade: come e quanto è diffuso?
Possiamo senz’altro dire che il Fair Trade è parecchio diffuso in Europa, essendo presente in quasi tutti i paesi dell’Unione. Solamente la WFTO ha membri in ben 16 paesi europei. Quella del Fair Trade in Europa è una crescita qualitativa e quantitativa se si considera che negli che negli ultimi 10 anni questo segmento di mercato è riuscito ad approdare anche nei Paesi dell’Est Europa e che le vendite sono cresciute in maniera esponenziale dappertutto. Gli ultimi dati a nostra disposizione, riferiti al 2013, ci dicono che le vendite dei prodotti a marchio FLO sono aumentate del 21% in Austria, del 9% in Belgio, del 13% in Danimarca, del 3% in Francia, del 23% in Germania, del 17% in Italia, del 6% in Olanda, del 9% in Norvegia, del 6% in Spagna e Portogallo, del 29% in Svezia, in Repubblica Ceca il risultato è stato eccezionale con un umento del 142%. Questi risultati sono stati raggiunti anche grazie a una costante crescita delle Botteghe del Mondo (BdM) che attualmente sono circa 3000 in tutto il territorio dell’Unione con una diffusione capillare nei paesi del Centro-Nord Europa.
Quali sono secondo lei le milestones che possiamo rintracciare nello sviluppo del Comes a partire dall’Europa?
Sono tante e distribuite nell’arco di oltre mezzo secolo di storia a partire dal 1964. Che è stato l’anno in cui i pionieri del Fair Trade parteciparono alla conferenza UNCTAD (L’agenzia delle Nazioni Unite per Commercio e Sviluppo) a Ginevra, usando lo slogan “Trade not aid” contro i Paesi industrializzati, che rispetto ai temi dello sviluppo e degli squilibri Nord/Sud tendevano ad ignorare problemi fondamentali come i prezzi dei prodotti o l’accesso dei Paesi del Sud ai mercati, preferendo offrire loro “aiuti allo sviluppo” e prestiti. Il Commercio Equo europeo ha mantenuto questa sua anima politica, centrata sulla critica alle regole del commercio internazionale, e ha dimostrato che è possibile fare economia rispettando criteri di equità sociale. Oltre trent’anni dopo, nel 1997, nasce per iniziativa di vari certificatori Fair Trade nazionali, già operativi da alcuni anni in vari paesi europei, la Fairtrade International, che controlla l’ente di certificazione FLO (Fairtrade Labelling Organization), il principale certificatore di FT. Contemporaneamente a Garstang, in Inghilterra, nasce la prima “Città Equa Solidale”, il primo passo che darà vita alla Fair Trade Town Campaign, attiva in 1.500 città e in ben 70 paesi, ma in particolare in Europa, che ne costituisce ancora la guida principale.
Nel 2004 nasce (promosso da WFTO e Fairtrade International) il Fair Trade Advocacy Office, che si occupa delle attività di advocacy e campagne per il FT europeo e non solo, e di rappresentare il FT nelle sedi dell’UE. Tre anni dopo, nel 2007, le organizzazioni di FT europee creano WFTO-Europa quale associazione dotata di un proprio statuto e propri organi di rappresentanza, formalizzando quello che fino ad allora era una semplice riunione che si svolgeva durante le Assemblee mondiali di WFTO. Infine nel 2014 si avvia il sistema di certificazione delle organizzazioni FT promosso da WFTO, diverso complementare rispetto a quello attuato da FLO.
Come si distinguono i vari Paesi: esistono modelli “nazionali”?
Relativamente. Esistono modelli nazionali che tra di loro presentano alcune differenze sistematiche. Le fra queste principali riguardano il rapporto tra Botteghe del Mondo ed importatori: in alcuni paesi, come Olanda e Austria, le reti nazionali di BdM sono molto strutturate, ed hanno criteri in base ai quali riconoscono gli importatori nazionali di FT. Altre differenze riguardano l’uso della certificazione che è molto diffusa, soprattuto quella Flo, nella maggioranza dei Paesi europei; il coinvolgimento con movimenti sociali attivi sulle tematiche internazionali e le campagne sociali, più presenti nel sud Europa; la diffusione che varia da paese a Paese; la tipologia dei lavoratori delle BdM, che in alcuni Paesi sono solo volontari in altri seguono tendenze alla professionalizzazione.
Quali sono le eccellenze dell’equo e solidale fra i ventotto paesi membri dell’UE? L’Italia come è messa?
Non ci sono dati assoluti, ma gruppi di paesi più virtuosi in alcuni rami del FT. Penso a Olanda, Belgio, Germania, Austria per diffusione, ruolo e protagonismo delle BdM, e la presenza di grandi organizzazioni di importazione FT. L’Inghilterra è prima per diffusione nella grande distribuzione e fatturato di vendite raggiunto. La Svizzera eccelle per percentuali acquisite da alcuni prodotti FT nella grande distribuzione. Italia, Belgio, Germania per il cosiddetto “Domestic Fair Trade”.
L’Italia è messa molto bene anche per quel che riguarda la presenza delle BdM, la loro professionalizzazione e la loro dimensione e media: si pensi che alcune tra le BdM più grandi d’Europa sono italiane. Nel nostro Paese c’è anche un alto livello di unitarietà del movimento e di dialogo interno al FT nazionale, nonché una buona presenza di importatori, tra i quali il secondo al mondo per fatturato. Il network italiano si distingue anche per la notevole partecipazione alla dimensione internazionale del FT (WFTO) soprattutto per quanto riguarda il forte interesse alla dimensione sociale e politica del FT. C’è ancora molto da fare, soprattutto rispetto al FT del Centro e del Nord Europa che ci batte in quanto a vendite totali e pro-capite, presenza dei prodotti FT nella grande distribuzione, crescita attuale del FT e supporto delle istituzioni pubbliche al FT.
Bruxelles è un interlocutore attento riguardo al settore dell’equo e solidale? Esistono politiche europee per tutelarlo e promuoverlo?
Su questo punto siamo di fronte a una situazione controversa. L’UE ha manifestato attenzione al FT, lo ha riconosciuto come pratica positiva e come interlocutore, e lo ha incluso nella attività finanziabili, ma finora è assolutamente indifferente alla possibilità che i suoi valori, princìpi e proposte sposino le proprie politiche commerciali internazionali. Il commercio dell’Unione è ancora fortemente centrato su un modello neoliberale che contrasta con l’utilizzo di prodotti FT negli acquisti pubblici. Si sono perfino intentate azioni legali che poi sono state rigettate portando a riconoscere la possibilità e l’utilità del FT.
Direi, per rispondere alla domanda, che c’è buon dialogo, anche grazie al notevole lavoro del Fair Trade Advocacy Office, qualche finanziamento effettivamente utile, ma scarse, se non nulle, influenze nella propria politica commerciale. 
C’è e si percepisce una dimensione europea del Fair Trade? Se sì quale ruolo può giocare il FT – anche solo come modello – nelle politiche europee di cooperazione e sviluppo?
C’è certamente una dimensione europea che può essere sintetizzata in: forte attenzione all’attività di advocacy, forte riconoscimento del ruolo delle BdM, forte tendenza alla professionalizzazione delle organizzazioni FT e capacità di interlocuzione con la Grande Distribuzione, attenzione all’economia solidale in generale.
Il FT sta già giocando un certo ruolo nelle politiche europee di cooperazione allo sviluppo. Prima di tutto perché sta portando l’attenzione allo “sviluppo” invece che all’assistenza, in secondo luogo perché dà priorità all’empowerment delle potenzialità produttive ed ai piccoli produttori locali, infine perché è una rete che continua a favorire lo sviluppo di alleanze e filiere tra produttori del Sud e consumatori e grossisti del Nord.
Recentemente è stato a Cuba per conoscere una realtà produttiva del Commercio equo e solidale. Che cosa l’ha colpita maggiormente? L’apertura diplomatica ed economica con gli Stati Uniti e la fine prossima di un embargo che dura dal 1960, come potrà favorire, se lo favorirà, l’avvio del Commercio Equo e Solidale da Cuba?
Cuba rimane un Paese dalla realtà sociale e politica controversa, ma estremamente interessante ed originale. Il FT vi è poco diffuso, ma ci sono interlocutori di alto livello che svolgono un ruolo particolare, che è quello sviluppare prodotti ed attività che hanno impatti sociali positivi anche fuori dal Paese. Penso all’azione della medicina sociale e preventiva e della ricerca connessa, svolta all’estero dai produttori cubani coinvolti nel FT. Oltre gli evidenti limiti e i problemi della situazione politico-sociale di Cuba, colpisce l’evidente coerenza tra gli obiettivi del FT ed i livelli di tutela dei lavoratori praticata nelle aziende visitate. L’embargo pone enormi problemi tecnico-economici anche ai nostri partner cubani di FT, quindi la fine del blocco imposto dagli Stati Uniti, oggi ipotizzabile, ma tutt’altro che scontata, non potrà che portare benefici anche allo sviluppo del FT a Cuba. Occorre però ricordare che per le sue condizioni sociali (Scuola, Sanità, Diritti dei lavoratori) nettamente migliori rispetto alla totalità dei Paesi del Sud del mondo, Cuba non è un target prioritario per il FT, potrebbe però svolgere un ruolo importante nel favorire lo sviluppo di un settore di imprenditoria privata attenta agli aspetti sociali ed ambientali, ed a esportazioni “di qualità” verso il “Nord”, laddove il sistema cubano evolva effettivamente verso la liberalizzazione delle attività economiche.
Crede ci sia l’esigenza o la possibilità di sviluppare il modello del Fair Trade non solo nel Sud del mondo, ma anche in contesti europei meno sviluppati?
Questa è una possibilità, ma da curare con attenzione, onde evitare confusione. Penso che il modo migliore per coinvolgere gli ambiti europei meno sviluppati nel FT – che esistono anche in paesi come l’Italia – sia quello di instaurare una forte, esplicita e strutturata alleanza con l’economia solidale. È necessario che le organizzazioni FT, ovvero importatori, BdM o similari, affianchino alla vendita dei prodotti FT tradizionali, la vendita di prodotti nazionali dell’economia solidale. Attuino, cioè, quello che è conosciuto come domestic Fair Trade.
La grande distribuzione europea, e non solo, ha in qualche modo cercato di far proprie le istanze e le fette di mercato di chi acquista ComES offrendo, oltre a linee di prodotti bio, anche linee di prodotti Fair. Tuttavia le etichette e le certificazioni richiedono uno sforzo di consapevolezza che il consumatore spesso non è in grado di fare. Quali suggerimenti può dare a un consumatore medio europeo per acquistare equo e solidale e far si che buona parte del prezzo pagato rimanga a chi ha prodotto quel bene?
La significativa crescita registrata dalle vendite FT in epoca di forte crisi come quella attuale è dovuta in gran parte all’aumento di referenze e di vendite fatta dalla grande distribuzione. L’etichetta “equasolidale”, però, da sola non basta, anche se è vero che la sensibilità dei consumatori verso di FT è in aumento, così come la visibilità dei prodotti equi e solidali anche nella grande distribuzione, dove, però, il rischio di confusione o imitazioni è sempre presente. Per questo la maggioranza della organizzazioni FT pone grande attenzione alle attività educative o informative rivolte ai consumatori.
Il consiglio al consumatore è fatto di tre parti: tutelare il proprio interesse di consumatore verificando sempre l’origine dei prodotti che compra, non solo per scegliere FT, ma per avere consapevolezza del luogo di provenienza dei prodotti che acquista, dato che da ciò dipende in parte la qualità alimentare, la salubrità, il gusto del prodotto. Secondo, tutelare il proprio interesse di cittadino nel cercare prodotti che non siano realizzati in palese contraddizione con i propri valori, il che comporta inevitabilmente di affrontare una serie di domande: che cosa c’è dietro questo prodotto? chi l’ha realizzato?. Terzo, tutelare la propria salute e sostenibilità economica chiedendosi quanto spende in alimenti, e quanto in altre attività/azioni/prodotti, per ricercare il giusto equilibrio tra i primi e i secondi ed evitare di trovare insostenibili i costi di prodotti alimentari “di qualità”. Questi potrebbero risultare leggermente più alti di altri laddove si consumano cifre ben superiori, e spesso inadeguate, per altri prodotti di consumo corrente (mobilità, comunicazione, abbigliamento, divertimento…).
Quali sono le priorità del WFTO Europa?
Sostenere un network di Advocacy valido. Diffondere ed applicare sistema di certificazione WFTO delle organizzazioni FT. Rappresentare e promuovere all’esterno, in particolare verso l’UE, il FT. Rafforzare le reti nazionali di FT perché siano al contempo di luoghi di autogoverno e promozione del FT a livello nazionale; e validi interlocutori a livello internazionale. Promuovere buone prassi per favorire l’accesso al mercato delle organizzazioni FT in generale e, in particolare, nelle aree dell’UE dove è meno sviluppato. Regolare e sviluppare il Domestic Fair Trade e creare un’alleanza con l’economia solidale.
Km zero e commercio equo e solidale, sembra un dilemma senza soluzione tra ambientalisti e terzomondisti. Secondo lei avrebbe senso parlare di KM EQUO?
Il dilemma si risolverebbe facilmente se ci si fermasse a pensare che il FT costituisce il “Km. Zero”, o per meglio dire la “filiera corta” della maggioranza dei prodotti che quotidianamente consumiamo e che vengono da fuori Europa, dal cotone al caffè. Quindi il FT non è affatto in contrasto, in linea di principio, con il Km. Zero. Anche per questo in alcuni paesi, tra i quali l’Italia, si è esplicitamente deciso di non importare prodotti freschi dall’estero che siano prodotti anche in Italia.
Secondo me il termine Km. Equo è più chiaro ed inclusivo di Km. Zero. La soluzione migliore, secondo me, continua a rimanere “Filiera Corta”, in quanto, come dimostrato da tutti gli studi che vi si sono dedicati, la distanza percorsa da un prodotto per essere consumato è solo uno dei fattori, e non sempre il più importante o incisivo, che ne determinano l’impatto ambientale. Molto dipende dal mezzo di trasporto e dalle modalità di coltivazione. La denominazione di “filiera” è più appropriata anche perché riguarda non solo i km. percorsi, ma anche i passaggi socio-economici che un prodotto deve fare per arrivare da noi. Inoltre, se in linea di principio il concetto di Km. zero è pienamente condivisibile, esso può trasformarsi facilmente in pratiche contrarie al commercio equo quali un’autarchia che vede con sospetto tutto ciò che viene da fuori, o che se ne disinteressa completamente, dopo secoli passati a forzare il Sud del mondo a trasformarsi in piantagioni per rifornire i nostri mercati, noi che siamo i principali inquinatori, li abbandoniamo al loro destino non volendoli più importare. Inoltre non dobbiamo mai dimenticare il significato degli slogan utilizzati dalla Lega Nord in alcune occasioni elettorali, tipo “+ polenta – cous cous”.
Recenti articoli raccontano di una crisi del Fair Trade e rivelano ombre sulle certificazioni etiche? Vuole spiegarci meglio?
Questo è un tema facile da affrontare per chi conosce bene il FT, complesso e difficilmente sintetizzabile in poche righe per chi non lo conosce. Mi limito quindi a dire che il FT è studiato, analizzato e documentato in numerosissimi “studi di impatto” svolti da università, ricercatori, giornalisti ed istituti di ricerca di tutto il mondo, ben rappresentati, tra l’altro dal prossimo Fair Trade Symposium, ospitato dal Politecnico di Milano durante la prossima World Fair Trade Week, 29-31 maggio. In secondo luogo, basare conclusioni generali sul FT sulla base del fatto che alcuni tra essi evidenziano problemi, contraddizioni o inefficacia del FT non ha nulla di scientifico, ma è frutto o di forte ignoranza o di interessi contro il FT. In terzo luogo sarebbe come buttare via tutta la politica, tutta la religione o tutte le forze dell’ordine a causa di noti e ripetuti episodi di corruzione e violenza che caratterizzano politici, preti, poliziotti.
Ciò detto non ha senso nascondere che il FT non solo può essere soggetto ad errori o inefficienze, ma che ha alcuni punti deboli, costituiti in particolare da un sistema di certificazione che se da un lato ha permesso la grande espansione del FT sia nel Sud che nel Nord del mondo, dall’altra può essere sensibile ai problemi che caratterizzano tutte le certificazione che hanno a che fare con prodotti che si vendono, e cioè essere sensibile alle “quantità”, avere forme di dipendenza o sensibilità verso grandi attori economici, guardare più (o solo) al mercato e meno alla dimensione politico-sociale del FT.
Inoltre il FT ha delle note debolezze nella parte più locale al Sud della propria filiera, laddove i propri prodotti vengono realizzati in vari passaggi da aziende, piccoli produttori o singoli lavoratori del Sud del mondo, ove non sempre gli attori del FT riescono a svolgere lavori di monitoraggio e controllo sufficienti.
In ogni caso il FT deve porre grande attenzione a tutte le ricerche, ed in particolare agli studi critici, evitando di autopromuoversi come privo di problemi, e rispondendo a tutte le critiche come avvenuto anche nel caso degli articoli citati.
 
 

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