Ormai non si può più parlare di finanza alternativa, ma di finanza dirompente. Uno strumento che funziona: circa il 40% delle campagne di equity crowdfinding inglesi va a buon fine
Non si può ormai più parlare di finanza alternativa. L’azionariato popolare è ormai uno strumento finanziario di tutto rispetto, almeno in Inghilterra, dove l’equity crowdfunding viene ribattezzato come «finanza dirompente». È quanto sostiene Ross Brown, del Centre for Responsible Banking & Finance dell’Università di St Andrews. L’occasione la offre una ricerca, realizzata dall’Università di St Andrews in collaborazione con l’Università di Stirling, che indaga appunto l’evoluzione degli attori del crowdfunding dando una definizione del fenomeno che, almeno oltremanica, ha dimostrato la sua potenza disruptive rispetto ai vecchi sistemi di finanziamento. La prospettiva di questa ricerca però, segue la direttrice della “demand-side”, ossia il lato “imprenditori che si rivolgono al crowdfunding”, differenziandola dalla “supply-side”, i finanziatori.
A supportare l’importanza della tesi, i numeri dei finanziamenti in capitali di rischio inglesi che, dall’inizio dell’anno, hanno raccolto 146 milioni di sterline, con la sola Crowdcube che, dal lancio nel 2011 a oggi, ha rastrellato oltre 100 milioni di sterline.
L’Inghilterra può essere considerata, a ragione, un laboratorio per gli sviluppi futuri del crowdfunding nella sua componente equity. Qui giocano, infatti, i campioni del fenomeno: oltre a Crowdcube, Seedrs e SyndicateRoom, e proprio 42 startup che si sono finanziate tramite queste piattaforme sono state coinvolte nello studio (su 160 contattate dai ricercatori). È emerso che 29 delle 42 aziende intervistate, ossia il 69%, ritengono che ci si rivolga all’equity crowdfunding per mancanza di alternative di finanziamento, dal momento che banche e venture capital non vogliono entrare nelle aziende in fase seed e «richiedono un guadagno che una startup non è in grado di garantire». Ma il lato interessante non è tanto la mancanza di finanziamento da parte delle banche, quanto il fatto che gli imprenditori stessi non si fossero presentati diventando «richiedenti scoraggiati» piuttosto che «richiedenti rifiutati». Infatti, emerge che, alla domanda diretta, solo 11 tra gli intervistati hanno considerato l’ipotesi di un finanziamento bancario e, di questi, solo nove l’hanno realmente richiesto. È un cambiamento radicale nel paradigma di percezione per chi richiede un finanziamento. L’equity crowdfundig è stata la prima scelta per il restante 73% degli imprenditori.
Certo non poteva mancare l’evidenziazione di un interessante cambio di comportamento negli investitori, sia piccoli sia business angels. È emerso, infatti, come il 45% dei business angel inglesi abbiano investito in piattaforme di equity crowdfunding. Un dato ancora più interessante se si considera che gli “angeli” investono attivamente solo su una piccolissima percentuale (circa il 2%) delle startup che gli vengono proposte.
La ricerca dà conto anche del quadro attuale dei finanziamenti. Circa il 40% delle campagne di equity crowdfunding inglesi va a buon fine e le aziende che ricorrono a questo canale sono principalmente «startup “pre-revenue” di cui la maggior parte opera in settori di consumer-oriented come media digitali, cibi e bevande, Fin-tech e trasporti». Di queste, il 57% ha meno di tre anni di vita (24 su 42). La raccolta media è pari a 408mila sterline da 164 investitori. È interessante il dato relativo al tipo di imprenditori che hanno risposto all’intervista: il 90% sono maschi tra i 25 e i 45 anni e sono collocati nel Sudest del Paese. Questo significa che il principale centro urbano, Londra, è il cuore dell’imprenditoria finanziata sul web. A questo si aggiunge che le startup non solo hanno beneficiato della raccolta in senso finanziario, ma anche come esposizione mediatica che ne è derivata: sono diventate aziende conosciute.
Sempre a proposito del genere, nelle conclusioni si fa un rapido accenno anche alla componente femminile: la ricerca rileva come le donne siano una percentuale decisamente inferiore rispetto agli imprenditori intervistati (appena il 10%) ma, a conti fatti, le campagne portate avanti dalle donne hanno maggiori possibilità di riuscita.
Fonte: EticaNews.it