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Il viaggio nella resilienza contadina

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Emanuela Ascari era partita a inizio aprile per un viaggio che ha chiamato “Ciò che è vivo – culture tour” e che si è concluso con un successo fatto di condivisioni, empatia ed esperienza. Emanuela, artista, ha coniugato arte e mondo rurale ed è stata conquistata dai valori di sobrietà e resilienza portati avanti dalle realtà contadine che hanno riscoperto la terra come bene comune e hanno visto nell’agricoltura biologica, contadina e naturale la vera via d’uscita.
«Avendo impiegato molto tempo nel selezionare le aziende che ho coinvolto avevo aspettative abbastanza alte che non solo sono state confermate, ma in molti casi anche superate per generosità e disposizione d’animo, per spessore culturale, per simpatia o per la bellezza dei paesaggi. Ogni giorno in cui mi spostavo, a volte di molti chilometri ma a volte anche di poco, non cambiavo solo territorio o accento, ma era l’entrare in un altro paesaggio interiore, spesso molto diverso dal precedente, pronta a modificare la modalità di ascolto» spiega Emanuela al ritorno dal suo viaggio.
«Ogni persona o famiglia incontrata è stata una sorpresa ed una ricchezza aggiunta al lavoro attraverso la relazione. Se c’è una cosa che non mi aspettavo è proprio questa diversità tra le persone che mi sono trovata di fronte, una casistica davvero eterogenea di personaggi che, ognuno a proprio modo, si dedicano alla terra, con intensità proprie ma un sentire comune: lo stare bene. Questa eterogeneità è stata chiaramente fonte di incessanti stimoli per il lavoro e ha offerto la possibilità di entrare in contatto con la terra attraverso prospettive e pratiche differenti».
«Alla base c’è per tutti una necessità, la necessità di rigenerarsi, interagendo con la natura secondo un sentire viscerale che lega una certa qualità dell’uomo alla terra, anche semplicemente perché ci sorregge. C’è un mettere sé stessi in quello che si fa, con consapevolezza, costruendo un paesaggio a propria immagine e somiglianza. E c’è il provare piacere nel farlo. Sono persone che coltivano idee assieme agli ortaggi, e producono bellezza. Questo viaggio è stato il modo per intercettare queste persone e per tracciare una connessione. Mi è dispiaciuto non poter fermarmi più tempo laddove mi veniva offerta la possibilità di farlo, siccome il viaggio era strutturato per date fissate in precedenza, che solo in pochi casi ho modificato lungo il percorso. Un incontro tanto inatteso quanto piacevole è stato invece con una persona che mi ha contattato durante il viaggio, avendo letto un articolo su questo lavoro, intercettando una mia disponibilità dovuta alla mancanza di possibilità di andare in Trentino. Sarei voluta andare a Malles, un piccolo Comune che tramite referendum ha legiferato il divieto di utilizzare pesticidi sul proprio territorio, per cui le aziende ora sono in conversione. Un esempio di quello che vorrei si avesse il coraggio di fare, sostenendo davvero la produzione locale e la salute. Magari ci passerò in un prossimo viaggio. Così sono rimasta in Veneto e ho incontrato Marisa Saggio, di Zolla14, un’artista che porta avanti una azienda agricola dopo aver vissuto tra il Giappone e gli Stati Uniti, dedicandosi ad uno squisito succo di mele biodinamico. Durante il viaggio sono venuta a conoscenza di altre aziende virtuose, e altre ancora mi hanno contattato, ci sarebbe motivo di fare un ulteriore tour per incontrarle.
Quanto delle relazioni e condivisioni che hai vissuto in questa esperienza influenzerà il tuo prossimo lavoro?
«Ora si tratta di ripercorrere tutto il tragitto, tutti gli incontri, per elaborare gli appunti in altre opere. Il lavoro avrà l’odore del miele, la leggerezza dell’aria, il sapore di ortica. Le realtà incontrate sono portatrici di un alto valore etico, e promotrici della bellezza. Una bellezza interiore che si manifesta nei paesaggi di cui si prendono cura, e che diventa bellezza anche per gli altri perché, se i terreni sono di loro proprietà, il paesaggio invece viene visto da tutti e appartiene alla collettività, è generatore di soggettività, e diventa patrimonio comune.  Se al centro dell’educazione e della cultura ci fossero realmente i concetti di equilibrio dell’ecosistema, di sostenibilità e di salute, e queste non fossero solo parole spese in vano per operazioni di marketing aziendale e consenso politico (greenwashing), o per grandi eventi di illusionismo di massa, penso che l’Italia potrebbe tornare ad essere il Bel Paese inneggiato da Dante e Petrarca, meta delViaggio in Italiadi Goethe e dei viaggi di formazione di ricchi giovani europei e letterati più o meno noti che, seppur con nostalgia per epoche passate, rimiravano la nostra geografia e la naturalezza di paesaggi che erano già allora coltivati e quindi antropici più che naturali. Ho incontrato questa bellezza, anche nei tragitti tra l’uno e l’altro. Perché questo accada servirebbe una volontà politica che fatica a farsi spazio, per un qualche strabismo collettivo che vede con sospetto il biologico senza preoccuparsi di quanto invece siano velenosi i cibi e i campi coltivati in modo convenzionale, una contorsione mentale che ci porta a dover certificare il primo e non invece a controllare i secondi, o che si preoccupa di produrre sempre di più quando la metà del cibo diventa rifiuto senza neppure essere acquistata, o che porta a non chiedersi come mai alcuni cibi costino molto poco. Manca una cultura scientifica adeguata, manca una cultura umanistica adeguata, che ho invece riscontrato nei miei interlocutori, assieme ad una sana sensibilità non per la natura tout court, niente nostalgia per una arcadia remota, ma per i processi naturali cui anche l’uomo appartiene. Tutto è connesso, ovvero ogni organismo ed ogni infinitesima particella è connessa con le altre, in continuo squilibrio e ridefinizione dell’equilibrio ecologico secondo regole “leggi” che sono le stesse anche per l’uomo. Anche fare un orto crea uno squilibrio, è una intrusione umana al normale corso della natura, la quale deve avere il modo e il tempo di riequilibrarsi, e lo fa sempre, è la sua natura!».
«Interessante è stato anche cercare di capire come sia possibile sviluppare una reale economia alternativa al modello dominante, che renda sostenibile il proprio progetto, difficile perché stretti tra le maglie di politiche agricole e territoriali che vanno in un un’altra direzione e con il pericolo incombente che ogni sforzo venga  vanificato dalla firma da parte dell’Unione Europea del Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP).
Alcune realtà incontrate si sostengono con l’ospitalità e la ristorazione, in un’ottica di autarchia. Oppure hanno spazi per ospitare corsi e attività culturali ed educative, o sono anche fattorie didattiche per le scuole. Molte di loro si affidano a sistemi di distribuzione quali i GAS, che non saranno però una reale alternativa fino a quando chi ci lavora lo farà in modo volontario. La maggior parte accoglie i wwoofer, manodopera non specializzata gratuita a scopo educativo, sia perché rientra nello spirito sociale dell’agricoltura, ma anche perché non c’è ancora una struttura economica che permetta ai più di assumere operai agricoli. A volte questo è il loro equilibrio ideale. C’è da dire che in questo viaggio ho scelto volutamente piccole realtà a conduzione individuale o familiare, di stampo non industriale, a parte qualche caso comunque utile alla ricerca, perché ero più interessata al rapporto diretto con la terra, che al prodotto finale. Altri invece sono stati i casi di realtà che sono prima di tutto laboratori di sperimentazioneculturale. Fare per conoscere, conoscere per fare. Mi riferisco all’orto biologico di Remo Angelini, dove lui studia qualunque forma di vita popoli le sue piante, elaborando un social network dedicato alle scienze naturali e alla catena alimentare (www.biodroid-community.net); o il giardino sperimentale di Luca Berdusco, dove, ricostruendo piccole porzioni di habitat veneti in successione, diversi per umidità e quindi per popolazione vegetale, preserva le specie indigene della pianura trevigiana, studiandole, osservando la bellezza del mondo per riprodurla, e sperimentando la produzione di fiori e di cibo ottenuti con il minimo impiego di energia. Questa ricerca, ad esempio, ha dato vita all’azienda agricola Indigena, mettendo a punto ilMetodo Indigena, che si basa sul “progettare e costruire autosufficienza alimentare e bellezza attraverso conoscenze di natura ecologica”».
«Ho esplorato forme di un sapere che si sta piano piano recuperando e che concerne la qualità e vitalità dei terreni, il senso della vita in relazione all’ambiente in cui si vive, la necessaria biodiversità della flora e della fauna, dove il selvatico ha un ruolo importante nel mantenimento della vita. A questo proposito è stato impressionante attraversare la zona di Valdobbiadene, dove una monocoltura di prosecco occupa ogni metro quadrato di terreno tra le case, come nella valle del Chianti, e dove i terreni costano sempre di più e gli immobili sempre meno perché la gente non vive più con piacere in questi luoghi dall’aria e dalle acque amare. Ecco, quando qualcosa inizia ad interferire con altro a cui diamo più importanza, il valore degli immobili ad esempio, intravedo una possibilità di cambiamento, è allora che anche i meno sensibili forse possono ravvedersi. Una mattina, in un altro luogo, ero a fare una fotografia della frase nel paesaggio quando sulle colline di fronte una altro coltivatore stava facendo un trattamento ai propri vigneti. Per fortuna il vento non soffiava dalla mia parte, ma la nuvoletta che emanava sarebbe rientrata nella fotografia. Sono tornata un’ora più tardi. Non c’era più ma anche la luce era cambiata e la fotografia ha un altro sapore. Interferenze».

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