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La radice violenta della società bulimica

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L’acquisto compulsivo di cibo e oggetti a cui ci spinge la società consumista non è solo nefasto per la nostra salute e per quella del pianeta, ma giustifica un pregiudizio settario che è alla base delle discriminazioni. L’interessante lettura della psicologa Carla Sale Musio.
Allevamenti intensivi in cui gli animali vivono in condizioni di enorme sofferenza; un’agricoltura industriale che non rispetta il ciclo delle stagioni; disboscamenti, deforestazione e consumo di suolo che causano l’estinzione delle specie e la cacciata delle popolazioni native dalle loro terre. Che impatto ha sul nostro immaginario il modello produttivo su cui si basano le società in cui viviamo? Secondo Carla Sale Musio, psicologa e psicoterapeuta che da tempo si occupa dell’argomento, l’abuso della natura di cui siamo giornalmente testimoni lascia una traccia indelebile sulla nostra psiche, legittimando inconsciamente la violenza verso chi è più debole. E’ proprio sulla paura che ne deriva che il mercato fa leva attraverso le pubblicità per indurci all’acquisto compulsivo di cibo e oggetti, contando sulla complicità della nostra opinione nutrita di pregiudizi verso chi non è omologato. La psicologa ci ha spiegato la sua interessante analisi in una intervista.
Lei ha analizzato il concetto di bulimia sociale e le sue implicazioni, ci puoi dire di cosa si tratta?
Il mercato ci spinge a comprare cibo e oggetti ad esso correlati con l’alibi che bisogna mangiare per vivere, usando meccanismi psicologici sotterranei che giustificano subdolamente una compulsione non solo a nutrirci di cose malsane, ma anche ad acquistare in maniera smodata, bulimica appunto. È un mondo che compensa col cibo una carenza emotiva, cioè il bisogno che tutti abbiamo di essere amati per stare bene. Le pubblicità offrono una sovrapposizione tra il cibo e l’amore, che però non arriva a nutrire l’anima, ma anzi alimenta una sorta di tossicodipendenza alimentare che ci fa male, sia psicologicamente che fisicamente. Gli slogan pubblicitari fanno leva sul principio inconscio mangiare = acquisire, come se potessimo colmare il vuoto riempendo lo stomaco, ma alla fine non siamo mai sazi, perché quello che ci nutre sono le emozioni positive. Si dice che chi è innamorato non ha fame, perché è nutrito d’amore e non ha bisogno di mangiare.
A differenza delle culture orientali, dove gli è dedicata grande importanza, sembra che noi non riusciamo a convivere con il vuoto….
Perché è antieconomico. In un’economia che ruota intorno alla produzione noi non siamo più persone, ma consumatori, dei mangiarisorse. Chi vende non vede me o te, non sta pensando a una relazione, a uno scambio, a qualcosa che nutre entrambi. Sta pensando che deve vendere quello che ha prodotto al di là che sia una cosa utile o no. Questo secondo me è già un principio che snatura l’umanità nel senso proprio della profondità dell’essere umano, oltre che la vita stessa. Ma il nostro acquisto compulsivo di cibo purtroppo ha un impatto determinante: nello sfruttamento degli animali e della natura che ne deriva possiamo ritrovare una radice importante della violenza a cui assistiamo nel mondo.
In che modo?
I maltrattamenti che vengono inflitti per esempio agli animali negli allevamenti intensivi, giustificano l’indifferenza delle nostre società rispetto al dolore di una creatura più debole. Questo nel nostro inconscio si traduce in una legge: chi è docile, compresi noi stessi, può essere trattato male. Un messaggio che ha delle implicazioni importanti, che ci toccano interiormente. Nel nostro inconscio avviene una rimozione della consapevolezza che a livello profondo ci porta a giustificare le violenze che vediamo, le discriminazioni e l’uccisione per vivere, anche rispetto a parti di noi stessi. È un concetto che non è facile diffondere, ma da un punto di vista psicologico è evidente.
Quali sono le conseguenze sociali?
Questo modello economico che stabilisce che di chi è debole possiamo farne quello che vogliamo ci mette nella posizione di dover scegliere se stare dalla parte dei buoni o dei cattivi, dividendo il mondo in base a un pregiudizio. Ma buono e cattivo sono concetti relativi al punto di vista da cui osserviamo le cose. Se non accettiamo sia le nostre parti positive che quelle negative, cominciamo a castrare metà di noi stessi e questo non ci fa stare bene. Se dentro di me una cosa è giudicata come negativa la censuro e la combatto all’esterno, assumendo un atteggiamento aggressivo verso chi non si comporta secondo quei canoni. Ma schierarsi in questo modo e dividere il mondo in due significa dividere anche se stessi ed è la base di tutte le forme di discriminazione.
In che modo quindi sarebbe possibile abbandonare questo atteggiamento predatorio nei confronti del mondo e vivere una vita più sana?
Se vogliamo vivere una vita sana e felice dobbiamo portare l’attenzione a cosa facciamo nel profondo di noi stessi, alle leggi che ci diamo. Spesso non pensiamo alle ripercussioni delle nostre azioni e nutriamo la violenza senza saperlo. Invece lavorare su noi stessi per stare bene e capire come funzioniamo inevitabilmente ha delle conseguenze positive anche sulle scelte che facciamo e questo può davvero incidere sulle sorti del mondo. Perché è vero che noi siamo schiavi dell’economia, ma anche l’economia è schiava di chi compra e noi siamo tanti. Non dovremmo mai dimenticare che in fin dei conti l’unico benessere possibile deriva dalla soddisfazione che noi abbiamo nella vita, che è legata all’espressione di noi stessi, allo scambio emotivo, alla creatività: tutte cose che non si possono comprare.

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