L’equo e solidale fa sempre più gola alle grandi imprese: come fronteggiare le multinazionali che chiedono la certificazione etica dei loro prodotti?
La caccia è aperta: i grandi gruppi multinazionali hanno fiutato l’affare del mercato equo e solidale e ci si stanno tuffando a mani basse: conosciamo già la storia del caffè solubile di Nestlè venduto in Inghilterra con il marchio TransFair, così come il più recente ingresso del gigante svizzero come azionista della Day Chocolate Company, società indipendente britannica che distribuisce cioccolato equo e solidale; un’operazione che rientra nell’acquisto da parte di l’Orèal (di cui Nestlè è proprietaria per oltre il 25%) della società di cosmetici Body Shop International.
Consumatori in allerta
I consumatori critici sono in allerta e si chiedono quanto le aziende etiche possano restare fedeli ai propri principi e valori, una volta parte delle aziende globali. A livello europeo, il mondo dell’equo e solidale appare diviso tra due posizioni estreme: da una parte c’è chi grida allo scandalo, dall’altra chi accetta passivamente la scalata delle grandi aziende. Secondo diversi esponenti del commercio equo italiano, francese e spagnolo, entrambe queste posizioni sono rischiose e alla lunga controproducenti. Rispetto agli altri paesi europei, le organizzazioni del commercio equo in Italia hanno preso una posizione chiara e compatta contro la certificazione di un prodotto Nestlè come equo e solidale, tanto da sottoscrivere un documento specifico nel settembre 2005. Coprire una nicchia di mercato per conquistarsi quei consumatori che sono più sensibili agli aspetti etici, a loro risulta nient’altro che una mossa tattica. La concessione del marchio crea inoltre un precedente che rischia di avere una ricaduta negativa sull’immagine di tutto il settore. Ciononostante, è opinione diffusa anche nel nostro Paese che non si può solo dire no alle multinazionali: con la crescita del settore, infatti, escludere un dialogo a priori risulta essere non solo sempre più difficile, ma alla lunga impossibile anche dal punto di vista legale.
Necessità di confronto
«C’è una certa inconsapevolezza da parte di molti operatori e consumatori di quanto l’indignazione, per quanto giustificata e condivisibile, non sia sufficiente nel rapportarsi con le grandi aziende» afferma Giorgio Dal Fiume, presidente di Ctm Altromercato. «Per quanto ci possiamo augurare che le multinazionali non entrino mai nel commercio equo, non possiamo negare che il nostro perseguire obiettivi di cambiamento complessivo del commercio necessiti di confrontarci anche con i suoi attori principali. Occorre piuttosto stabilire dei confini chiari, che nel caso delle multinazionali tengano conto soprattutto del soggetto che si ha di fronte». La questione quindi è come si possa utilizzare la leva dell’equo e solidale, la sua appetibilità, per portare dei cambiamenti anche all’interno delle grandi imprese. «Certamente nessuno si illude di poter cambiare la Nestlè da un giorno all’altro», continua Del Fiume, «ma non bisogna dimenticare che dietro a tutto ciò c’è anche una straordinaria opportunità: quella di incidere sugli attori del commercio mondiale». «Sulla scorta di questo» aggiunge Paolo Pastore, coordinatore nazionale di Transfair, «abbiamo recentemente elaborato un documento che definisce le condizioni da adottare nel rapportarsi con le multinazionali, al quale tutti i membri del FLO (Fairtrade Labelling Organizations International, organizzazione internazionale di certificazione, n.d.r.) dovrebbero attenersi. Questo documento è molto importante, in quanto si riconosce che avere a che fare con le grandi aziende, per esempio in Inghilterra o negli Stati Uniti, è quasi gioco forza, e quindi è essenziale avere le idee chiare in partenza per non prestarsi a delle strumentalizzazioni. Il mondo del commercio equo al momento è impreparato, in quanto non ha sviluppato su larga scala, fatta eccezione per Banca Etica, una politica sugli aspetti finanziari che consentono in qualche modo di proteggersi da queste scalate».
La situazione in Italia
Sembra che nel nostro Paese rispetto a questi temi ci sia davvero una sensibilità diversa, che ha creato una barriera culturale nei confronti dei grandi takeover, i quali nel Nord Europa sono all’ordine del giorno in tutto il mercato alternativo: tra i numerosi esempi citiamo quelli del dentifricio naturale Tom’s of Maine acquistato da Colgate-Palmolive, lo yogurt bio di Rachel’s Organics, attualmente controllata dal conglomerato americano Dean Food, La Ben & Jerry’s comprata dalla Unilever e la Green and Black’s, della quale si è impadronita la Cadbury-Swheppes. Certamente non ci si illude che queste operazioni avvengono in diversi contesti anche in Italia, tuttavia la speranza è che si possa avere qualche anticorpo in più. «Questa differenza si può ricondurre alle origini del commercio equo e solidale in Italia rispetto all’estero» spiega Andrea Reina, presidente dell’Associazione Botteghe del Mondo. «Nei paesi del Nord Europa infatti si è pensato di lavorare subito con i grandi numeri e con le grandi piattaforme. In Italia invece il commercio equo è nato dal basso attraverso le Botteghe del Mondo, a stretto contatto con persone impegnate, con i volontari e i clienti stessi. Si pensi che anche prima di arrivare allo scaffale del supermercato ci sono voluti 15-20 anni di percorso ragionato. Ritengo che il miglior antidoto per il futuro sia proprio quello di mantenere questo rapporto diretto, che mantiene vive le coscienze di chi lavora nel settore e dei consumatori stessi». Da dove partire allora per rapportarsi alle multinazionali e quali le condizioni imprescindibili? «Innanzitutto, possiamo pensare di dare la licenza di equo solidale solo a fronte di modifiche sostanziali di comportamento di una grande azienda» afferma Del Fiume. «Nello specifico, soltanto nel caso in cui essa si impegni a lavorare per una percentuale significativa e periodicamente crescente con produttori del commercio equo, e per una percentuale ancora più significativa con i piccoli produttori». Si richiedono dei cambiamenti significativi nel comportamento globale delle grandi imprese multinazionali e non che si aggiunga semplicemente un prodotto di nicchia con l’unico scopo di riversare una immagine positiva su tutta l’azienda. Tutto ciò implica un cambiamento della filosofia stessa di multinazionale che si basa sull’abbattimento dei costi e sulla riduzione all’osso di tutta una serie di spese, principi che sono portati necessariamente a scontrarsi con l’aspetto etico. «Proprio per questo» afferma Pastore «un rafforzamento dei percorsi di certificazione e di garanzia e un lavoro sinergico di tutti i rappresentanti del commercio equo è essenziale per far sì che si sviluppi una maggiore coscienza da parte dei consumatori, così come una maggiore coesione del movimento del commercio equo nel suo intero». «Ci sono certamente dei rischi molto forti per tutti, anche verso gli stessi produttori» conclude Del Fiume. «Per questo la priorità assoluta deve essere quella di tutelare la sostanza del commercio equo e solidale, nell’interesse di tutte le persone coinvolte». Ad ogni modo, l’ultima parola toccherà ancora una volta ai consumatori: l’augurio è sempre quello di fare la spesa senza avere la memoria troppo corta…
Una sfida difficile
Una sfida difficile dunque, visto che per andare in questa direzione si richiedono dei cambiamenti significativi nel comportamento globale delle grandi imprese multinazionali e non che si aggiunga semplicemente un prodotto di nicchia con l’unico scopo di riversare una immagine positiva su tutta l’azienda. Tutto ciò implica un cambiamento della filosofia stessa di multinazionale che si basa sull’abbattimento dei costi e sulla riduzione all’osso di tutta una serie di spese, principi che sono portati necessariamente a scontrarsi con l’aspetto etico. «Proprio per questo» afferma Pastore «un rafforzamento dei percorsi di certificazione e di garanzia e un lavoro sinergico di tutti i rappresentanti del commercio equo è essenziale per far sì che si sviluppi una maggiore coscienza da parte dei consumatori, così come una maggiore coesione del movimento del commercio equo nel suo intero». «Ci sono certamente dei rischi molto forti per tutti, anche verso gli stessi produttori» conclude Del Fiume. «Per questo la priorità assoluta deve essere quella di tutelare la sostanza del commercio equo e solidale, nell’interesse di tutte le persone coinvolte». Ad ogni modo, l’ultima parola toccherà ancora una volta ai consumatori: l’augurio è sempre quello di fare la spesa senza avere la memoria troppo corta…
a cura di Nicholas Bawtree