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Val di Noto: no al petrolio, sì alle fonti rinnovabili

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Il Val di Noto* rischia lo scempio di nuove trivellazioni per cercare petrolio, che già si sa è di scarsa qualità; la popolazione locale si è unita per dire «no» a un futuro sporco di greggio e per proporre alternative sostenibili.
I l Val di Noto, a sud di Catania, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco per la ricchezza di opere barocche e per una meravigliosa tradizione culturale, ma anche per la sua grande area naturalistica. Ora tutto questo è in pericolo, perché la Regione Sicilia ha dato il nulla osta per la ricerca di petrolio e gas.
Evidentemente non c’è più bisogno di andare molto lontano per osservare i sintomi della crescente emergenza petrolio a livello mondiale. È ben noto infatti che il petrolio siciliano è di bassa qualità, a causa dell’elevata percentuale di zolfo che implica maggiori costi di raffinazione. È per questo che negli ultimi trent’anni l’attività esplorativa aveva registrato un forte rallentamento dopo la grande attività degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta. I giacimenti dell’isola non erano stati ritenuti interessanti e le compagnie, soprattutto straniere, avevano abbandonato il progetto.
Ora che non ci sono più dubbi che l’oro nero stia per finire e che questa realtà sta cominciando a influire pesantemente sui prezzi a livello mondiale, le compagnie petrolifere sono tornate sui propri passi, bussando nuovamente alla porta delle istituzioni che si sono mostrate fin troppo disponibili, venendo meno però al dovere di informare la popolazione sulle conseguenze delle trivellazioni.
Tutto ha avuto inizio nel 2002 con una disciplinare della Regione Sicilia, risultato di un accordo con l’assessorato all’industria, che in sostanza ha dato carta bianca alle compagnie petrolifere. L’assessore all’industria, Marina Noè, firmò i decreti che dettero il «via libera» alla «ricerca e all’estrazione di idrocarburi gassosi e liquidi». Dalla premessa del disciplinare si legge che «la concessione comprende anche il diritto a costruire, esercire e mantenere un sistema, parziale o completo, di serbatoi e di condotte. […] Tale sistema può comprendere, fra l’altro, le stazioni di spinta iniziale o intermedie e i relativi serbatoi, macchinari annessi, le condotte principali e secondarie». Ovvero, permesso di trasformare il Val di Noto in un enorme complesso petrolifero. In pratica, il Texas italiano. Quattro concessioni sono state date a quattro compagnie petrolifere: Eni, Sarcis, Edison e Panther Resources, per un totale di 1600 chilometri quadrati.
I sindaci dei comuni del Val di Noto, per rendere pubblica la questione si sono limitati ad affiggere un avviso all’albo pretorio e così, nei 60 giorni previsti dalla legge per eventuali reclami, nessuno ha saputo o potuto reagire.
La faccenda avrebbe proseguito il suo iter nel silenzio generale se il Comitato contro le trivellazioni, promosso da operatori turistici della zona, associazioni ambientaliste e cittadini e appoggiato dall’assessore al turismo della Regione, non avesse sollevato la questione dei gravi guasti ambientali che inevitabilmente accompagnano lo sfruttamento dei giacimenti gas-petroliferi, che proprio a causa della bassa qualità rischiano di creare più danni che vantaggi in una zona della Sicilia da tempo votata al turismo naturalistico e culturale. Una consapevolezza confermata dall’Unesco, che ha incluso un gran numero di siti del Val di Noto nel World Heritage List, la lista dei luoghi considerati «patrimonio dell’umanità».
Oltre ai danni ambientali – una delle installazioni riguarda la bellissima zona del Tellaro, paradiso naturale ed archeologico – i nuovi accordi siglati con le compagnie petrolifere appaiono discutibili anche sul piano economico. «Il disciplinare porta delle modifiche sostanziali» afferma Vincenzo Moscuzza, dirigente regionale di Aiab Sicilia e membro del Comitato contro le trivellazioni: «mentre in passato, gli accordi stabilivano che ciò che veniva trovato dalle compagnie petrolifere rimaneva di proprietà della regione, ora, nel nuovo accordo, la proprietà del materiale è delle compagnie, che sono tenute a pagare solo delle royalties, pari al 7% dei profitti, di cui il 5% va alla regione e 2% ai comuni. Come contropartita alle ricerche invece viene dato il ridicolo contributo di 5 Euro per chilometro quadrato e 100 mila Euro per “attività culturali”».
Dalla parte del comitato si è schierato anche l’assessorato al turismo della Regione, in netto contrasto con l’assessorato all’industria. Dal punto di vista amministrativo, siamo quindi allo stallo: da una parte infatti le compagnie petrolifere hanno ricevuto legittimamente i permessi per le ricerche, dall’altra, le compagnie per accedere nei siti de sei comuni del Val di Noto interessati, dovranno chiedere l’autorizzazione per mettere le prime capannine e fare i fori. «I sindaci hanno la facoltà di declinare questa autorizzazione,» spiega Moscuzza, «tuttavia se ne dovrebbero assumere tutte le responsabilità, visto che le compagnie petrolifere avrebbero tutto il diritto di fare ricorso».
Una prima vittoria in questo senso si è avuta lo scorso 23 gennaio, quando i comuni del Val di Noto, anche di diverso colore politico, hanno detto un convinto «no» al modello di sviluppo che passa attraverso le trivellazioni gas-petrolifere, firmando una mozione da inviare al presidente della Regione siciliana e alla sua giunta. Certo, si tratta di una presa di posizione che ha per ora solo valore politico, tuttavia si tratta di un giudizio severo da parte di istituzioni locali, nei confronti di un provvedimento regionale che permette di svendere un terzo della Sicilia al dio-idrocarburo.
Ora sta alla Regione Sicilia prendere atto di questa espressione di volontà popolare e revocare i permessi concessi a suo tempo.
Oltre ad opporsi alle prospezioni, il Comitato contro le trivellazioni si sta battendo per individuare e proporre valide alternative allo sfruttamento petrolifero: dallo sviluppo del turismo all’incremento dei pannelli solari e dell’energia eolica, passando per lo sviluppo delle coltivazioni di sorgo, mais, orzo e girasole per la produzione di etanolo e biodiesel.
È evidente che oggi assistiamo ad una grande contraddizione: mentre la Comunità Europea, con le direttive 2003/30/CE e 2003/96/CE, sprona i paesi membri ad incrementare l’uso di combustibili vegetali, l’Italia dimezza gli obiettivi nazionali per quanto riguarda la produzione di biocombustibili.
Peraltro, beffandosi delle direttive europee che stabiliscono che entro il 2010 almeno il 12% dell’energia consumata dovrebbe essere ottenuta da fonti rinnovabili, il governo italiano ha ridotto tale obiettivo al 5,7%. Su questi temi, il comitato vuole organizzare anche delle giornate di studio a livello del Sud Italia, per accogliere i massimi esperti a livello nazionale e internazionale in campo di energie rinnovabili e trovare delle soluzioni valide e applicabili a tutto il Meridione.
Non si tratta quindi di dire «Non scavate da noi, andate a scavare altrove», ma di andare verso la risoluzione di problemi energetici con energie rinnovabili e non più fossili; si solleva quindi un problema energetico complessivo al quale già paesi come la Germania, i Paesi Scandinavi e la Spagna hanno risposto in modo adeguato. Ci si augura quindi che questa vicenda possa essere un’opportunità per riflettere nuovamente sulle reali conseguenze dell’economia del petrolio, per rispettare la volontà della popolazione locale e per conoscere ed implementare le valide alternative al fossile.
* Si parla di Val di Noto al maschile poiché non è una valle comunemente intesa ma un’antica suddivisione della Sicilia in tre «valli», al singolare «vallo».

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