Avevo un’amica con un compagno possessivo: ogni volta che usciva con le amiche pretendeva che lei gli inviasse le foto per avere conferma che non fosse con un amante, e se vedeva il gomito peloso dell’ignaro signore seduto al tavolo dietro sbucare in un angolo della foto faceva una scenata. Due giorni dopo si presentava con un mazzo di fiori e molte scuse, lei lo perdonava e si ricominciava. Agli atti, quando l’ho accompagnata in questura per richiedere un ammonimento, avevamo 220 pagine di scambi di messaggi WhatsApp di questo tenore, una spirale che si avvitava sempre più stretta. La mia amica si sentiva soffocare ma pensava di essere la solita esagerata a lamentarsi. Ci sono voluti occhi esterni e disincantati per intravedere un’ossessione patologica e pericolosissima da parte del compagno, e che fatica cercare di portarla a vedere che era vittima di abusi senza far scattare la reazione opposta del “che cosa ne capisci tu, tu non lo conosci, lui mi ama eccetera”.
Ho avuto molta paura per lei, ne ho ancora. Eppure lui a tutti noi sembrava un bravo ragazzo.
Rivivo tutto questo in questi giorni. La mia omonima, sorella di Giulia, una tipa tosta a cui va tutta la mia sorellanza di spirito, ha detto che Filippo è il figlio sano del patriarcato, e ha ragione.
Questo patriarcato è subdolo e agisce ovunque: nelle competizioni di bellezza ormai presenti anche a scuola, nel mercimonio dei corpi femminili a scopi di marketing, nelle favole che raccontiamo alle nostre figlie, nel dipartimento giocattoli di qualsiasi grande magazzino, nel “come sei carina con quel vestitino!” (lo diremmo mai a un bimbo?), in tutti quei terribili “principessina” con cui affettuosamente e malauguratamente vengono chiamate le bimbe, fino alle manifestazioni più ovvie di una sessualità presentata come performance e controllo e nel bunga bunga come massima espressione della realizzazione sociale. “Cinderella Ate My Daughter” di Penny Orenstein offre di questo fenomeno una analisi spietata e spiazzante.
Ci sono molte questioni in ballo. Una, quella più ovvia, è la difficoltà diffusa ad accettare le sconfitte e le rinunce, quei famosi “no che aiutano a crescere”, e che sono un limite ma anche una sfida a reinventarsi strade, modi di essere, relazioni alternative. Un’altra questione riguarda il fatto che le donne, in quasi tutti gli ambiti, sono considerate delle minus habens, inferiori, che acquistano valore se si comportano al pari degli oggetti: esteticamente piacevoli, che sanno stare al loro posto, ottemperare alla loro funzione di offrire conforto e supporto (e soddisfazione sessuale), ma senza fare troppo rumore. Io ti posseggo, sei mia, perché tu sei per me al pari di un oggetto: una persona, riconosciuta nella sua dignità, non la puoi possedere.
Un’altra riguarda infine una concezione maschile (anche questa molto diffusa) che vede nella sessualità non una forma di gioiosa condivisione di una intimità fisica e psichica, ma un monopolio e dominio assoluto che si vorrebbe esercitare tanto sul corpo quanto sulla mente della compagna, un’arma di sottomissione. Da qui scaturisce quella gelosia cieca e patologica che, lontano dall’essere una prova di forza e di carattere, rivela la grande fragilità di chi la vive e la agisce.
Così succede che uomini estremamente insicuri (a volte senza nemmeno sapere di esserlo) sentano la necessità di dimostrare il contrario, e quindi di riaffermare il loro ruolo dominante cercando a tutti i costi di esercitare un controllo sulle compagne. Un eventuale sgarro della compagna di turno, o ancora peggio un suo tentativo di liberarsi da questo controllo, non è ammissibile perché chi è affetto da mascolinità tossica se perde il controllo perde tutto quello che ha.
C’è un pensiero ricorrente in questi giorni che mi tormenta. Io sono fermamente convinta che la pretesa di controllare il comportamento di altri da noi (specie se li consideriamo dei minus habens), tramite le intimidazioni, le umiliazioni i ricatti emotivi, la violenza verbale e poi agita “ma è solo perché ti voglio bene”, e ovviamente nella presunzione che “il tuo bene lo so io quale è”, non sia insita solo nelle dinamiche uomo-donna. Non è solo e soltanto una violenza di genere, ma una violenza in genere. Mi spiego: si parla tanto di combattere questa mascolinità tossica con l’educazione, ma esattamente con quale sistema educativo ci confrontiamo oggi?
Dalla nascita, certi stili di genitorialità ancora molto diffusi sono basati sulle punizioni, i castighi o ancora peggio le urla e le sculacciate: forme di violenza che vengono usate per condizionare il comportamento dei bambini ma che in definitiva non insegnano per nulla a “comportarsi bene”. L’unica cosa che insegnano è la paura, che conviene fare come viene ordinato dai genitori sennò è peggio per loro, e instillano insicurezza. “Certo che la controllo, perché non mi fido di lei…” dicono troppi adolescenti intervistati in questi giorni a proposito delle loro ragazze, proprio come certi genitori sentono di dover controllare il comportamento dei figli perché di loro non ci si può fidare, non sanno “rigare dritto” da soli.
Anche le istituzioni scolastiche sono tuttora fondate sull’autorità e sull’obbedienza: esistono ancora le note disciplinari, lo spauracchio di un brutto voto e quindi di una umiliazione costituisce spesso la motivazione primaria per studiare e persino la possibilità di rispondere alle necessità biologiche di base (come andare in bagno per fare pipì, o anche per cambiarsi l’assorbente) dipende dalla discrezionalità dell’insegnante.
I nostri bambini (minus habens per eccellenza, perché non ancora adulti, non ancora “in grado di”) crescono e vengono educati in una società in cui le loro voci, i loro bisogni primari sono subordinati a quelli degli adulti, e in cui è perfettamente normale (e quindi legittimo) che chi ha, o sente di avere, una posizione di maggior potere rispetto a loro usi mezzi coercitivi per ottenere la loro sottomissione alla propria volontà. Qual è il messaggio che interiorizzano? Che chi ha potere, ha il diritto di comandare.
“Ti ricatto/insulto/picchio/punisco/umilio oppure semplicemente limito la tua autonomia perché ti voglio bene/per il tuo bene”: se siamo (quasi) tutti d’accordo che deve essere inaccettabile in una relazione di coppia, perché invece è perfettamente accettato in una relazione educativa?
“Amarli senza se e senza ma” di Alfie Kohn è un libro illuminante sulle conseguenze a breve e lungo termine sui bambini di un amore “condizionato”.
Come è possibile rivoluzionare le relazioni tra i generi senza prendere di mira gli evidenti squilibri di potere insiti nelle relazioni in genere? Come possiamo educare i nostri bambini e ragazzi al rispetto della dignità, dei diritti, dei bisogni e delle scelte altrui se loro per primi sono vittime di approcci all’educazione basati sulla non-fiducia nella loro capacità di regolarsi e di auto-determinarsi, sulla minaccia e la punizione? Come possiamo evitare che ci siano altre Giulie se non riconosciamo le dinamiche di costrizione, controllo e repressione insite nei modelli di genitorialità autoritaria e negli approcci che le istituzioni scolastiche stesse, proprio in virtù di come sono fatte e funzionano, continuano a perpetuare, e quindi a promuovere, in quel loro “curricolo nascosto” di cui parla Ivan Illich?
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