Fortunato Peitavino: un igienista nell’Italia del primo Novecento
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È proprio in questo momento d’intensa disperazione che nella vita di Peitavino avviene un incontro importantissimo, uno di quegli incontri che cambiano la vita. Quello con Henry Gossmann, un medico esperto di cure naturali, direttore del sanatorio del parco di Wilhelmshöhe, situato vicino a Kassel, nella Germania settentrionale. All’epoca, la Riviera ligure era meta di numerosi turisti provenienti da tutta Europa, che speravano di beneficiare del clima mite della costa tirrenica per contrastare l’insorgere della scrofola. Il dottor Gossmann aveva deciso di aprire a Bordighera una succursale del suo centro di Kassel e aveva contattato proprio Peitavino per l’installazione di un impianto per trattamenti idroterapici. Ma conosciuto il meccanico, il medico tedesco era rimasto particolarmente colpito dal suo pessimo stato di salute e, dopo non poche insistenze, era riuscito a strappargli la promessa di prendersi maggiormente cura del suo corpo, adottando uno stile di vita più improntato alla natura, sforzandosi di assumere solo alimenti di origine vegetale e di esporsi periodicamente a bagni di sole, aria e vapore. Insomma, quegli accorgimenti elementari che, all’epoca, costituivano le basi terapeutiche della nascente medicina naturale.
Non era la prima volta, in verità, che Peitavino sentiva parlare di questo genere di cure. Poco tempo prima, un altro naturista, il botanico viennese Joahnnes Ammann, presso cui aveva lavorato, gli aveva consigliato vivamente di escludere la carne dalla sua dieta e di trascorrere molto più tempo all’aria aperta. Un’indicazione che Peitavino aveva accolto con indifferenza, come uno dei tanti buoni propositi che si lasciano cadere nel corso della propria vita. Tuttavia, ora che le sue condizioni di salute e, soprattutto, quelle della figlia tubercolotica peggioravano di giorno in giorno, non c’era più tempo da perdere. Peitavino non solo prese molto seriamente le indicazioni di
Gossmann, ma cominciò anche a interessarsi di cure naturali, fermamente convinto che, come insegnato dai grandi autori della tradizione naturista, da Ippocrate a Louis Khune, le malattie originassero tutte da un’unica causa: l’eccesso di tossine nel corpo introdotte attraverso una cattiva alimentazione (teoria della monopatogenesi).
In quest’ottica, l’adozione del vegetarismo appariva una scelta obbligata e, persuadendosene, Peitavino decise anche di associarvi un radicale cambiamento di vita. Lasciò così la sua officina di Bordighera e si trasferì insieme alla figlia in una sua proprietà di campagna, denominata “Prati Gontè”, situata in Val Nervia nelle vicinanze di Isolabona (Imperia). Qui, a partire dal 1911, trascorse sei anni facendo bagni di sole, acqua e aria, camminando scalzo, dormendo con le finestre aperte, coltivando la terra e cibandosi dei suoi frutti. Incredibile a dirsi, ma, nel giro di due anni, lui e sua figlia erano completamente guariti e, anche nell’aspetto, Peitavino era diventato quasi irriconoscibile. Come avrebbe raccontato Maria Gustavino, una delle tante ospiti di Prati Gontè, chi vedeva per la prima volta Fortunato restava colpito dal suo aspetto di “vero naturista”: “piedi scalzi, testa e busto scoperti, barba e capelli fluenti, bianchissimi, colorito ottimo, occhio brillante, sorriso pieno di bontà”1. E la signora Gustavino non sarebbe stata la sola ad avere quest’impressione. Ben presto, infatti, la casa di campagna di Prati Gontè si sarebbe trasformata in una vera e propria “colonia agricola naturista”. Una pensione a gestione familiare che, da maggio a ottobre, avrebbe ospitato tutti coloro che, per un breve periodo di tempo, desideravano fuggire dall’aria già allora irrespirabile della città. Da qui sarebbero passati uomini e donne provenienti da diverse parti d’Italia, giovani e anziani, famiglie (come, per esempio, quelle dello scrittore Italo Calvino e del botanico Libereso Guglielmi)2 e intere scolaresche. Gli ospiti dormivano in speciali casette di legno molto arieggiate, mangiavano tutti insieme, prendevano bagni di sole e di acqua e si sottoponevano a compresse calde e fredde, secondo l’insegnamento della tradizione naturista. Nel fine settimana, inoltre, la colonia si tramutava in una sorta di balera, animandosi di gente venuta in bicicletta dai vari paesi limitrofi per pranzare insieme, ascoltare musica e ballare al suono del grammofono.3
In questi anni, Peitavino continuò ad approfondire lo studio delle cure naturali, tenendo sempre un occhio su ciò che accadeva anche fuori dall’Italia. Ben presto, entrò in contatto con la Società Vegetariana di Francia, studiò l’esperimento naturista avviato da Henri Oedenkoven e Ida Hoffman sul Monte Verità, in Canton Ticino, e si mise in contatto con medici e naturisti iberici, come per esempio Amílcar de Sousa, presidente della prima società vegetariana di Portogallo. Per poi fondare nel 1915 un giornale intitolato «La Nuova Scienza», con cui si proponeva di diffondere le sue idee e le sue conoscenze.
Tuttavia, l’incombere del primo conflitto mondiale pose ben presto fine a questa sua impresa editoriale, assestando una dura battuta d’arresto anche alle attività della colonia di Isolabona. Allora, in un mondo segnato dalle devastazioni della guerra e diviso dalle trincee, Fortunato si ritirò nei suoi studi, analizzando con fervore l’importanza della combinazione dei cibi e meditando sulla necessità di “rigenerare” fisicamente e moralmente l’intera umanità per porre fine, una volta per tutte, a ogni genere di sofferenza.
Cessata la guerra, questa sua sete di conoscenza lo spinse in Spagna, dove scoprì la Escuela Naturotrofológica fondata in Uruguay e portata a Barcellona dai medici Josè Castro e Nicolàs Capo. È qui che si insegnava la cosiddetta “eutrofologia”, cioè la “nuova scienza dell’alimentazione” (dal greco “eu”= “buono” e “trofos” = “ciò che nutre”), che intendeva analizzare le leggi di “incompatibilità chimica” fra gli alimenti e contrastare i mali derivanti da una cattiva digestione. Ed è sempre qui che, nel 1926, Peitavino si iscrisse a un corso per corrispondenza, divenendo in poco tempo uno specialista dell’igienismo alimentare e fondando, due anni dopo, una succursale italiana della scuola all’interno della sua colonia.
Come quella spagnola, la Scuola Italiana del Nuovo Naturismo Eutrofologico funzionava per corrispondenza e rilasciava un regolare diploma. Secondo il suo insegnamento, soltanto attraverso un regime alimentare vegetariano, tendenzialmente crudista e attento ai rapporti di compatibilità fra gli alimenti, era possibile conservarsi in buona salute. Ed era sempre attraverso una corretta alimentazione che si poteva, non solo prevenire, ma addirittura curare i malanni più comuni: era la cosiddetta “trofoterapia” la quale, ponendosi in aperto contrasto tanto con le cure allopatiche quanto con quelle omeopatiche, si proponeva di indagare ed eliminare le cause nutrizionali delle malattie. Ma, pur importantissimo, tutto questo per Peitavino non bastava: per contrastare davvero l’insorgere dei malanni e avvicinare la guarigione, era necessario vivere quanto più possibile a contatto con gli elementi della natura eliminando quei vizi e quelle costrizioni malsane che contraddistinguevano la civiltà industrializzata. Solo così sarebbe stato possibile “rigenerare” realmente l’umanità sia nel fisico che nel morale, bandire la violenza, rispettare la vita, aprirsi all’“amore universale”. Ed erano questi principi che l’ex meccanico tentava di diffondere sia attraverso la sua scuola sia attraverso i consigli prodigati agli ospiti della colonia.
Ma il sogno di una “rigenerazione umana”, in anni così burrascosi e ambigui come quelli che videro nascere le ideologie totalitarie, finì per incontrarsi con l’illusione dell’eugenetica, cioè con l’idea che fosse necessario migliorare la propria “razza” nazionale attraverso l’aiuto di uno Stato “forte”. Un’idea che affondava le proprie radici nell’Ottocento, ma che assumeva un nuovo significato con l’avvento, prima, di Benito Mussolini e, poi, di Adolf Hitler, quando la forza apparentemente “rivoluzionaria” dei fascismi cominciò a trascinare con sé anche le menti migliori: quelle di
intellettuali raffinati che, proprio come Peitavino, aspiravano realmente al cambiamento dell’umana natura per il vantaggio dei sofferenti. È per questo che al lettore di oggi, consapevole di quanta sofferenza causarono certe ideologie criminali, gli elogi al preteso spirito innovatore del fascismo, le esaltazioni del Duce e le citazioni tratte da Karl Brandt (medico personale di Hitler e futuro responsabile del programma eugenetico nazista), così ricorrenti negli scritti di Peitavino, non possono che apparire discorsi tetri e infelici, soprattutto se confrontate col candore delle speranze e delle illusioni del suo autore.
Non sappiamo come l’ex meccanico di Bordighera reagì nel 1938 all’introduzione anche in Italia delle leggi razziali né se, come altri suoi contemporanei, ebbe mai sentore di ciò che accadeva agli ebrei nei campi di concentramento proprio in nome di quella distorta idea di “rigenerazione” razziale. Sappiamo solo che, a pochi mesi dalla fine della guerra e dalla scoperta degli orrori nazisti, per un’infezione da tetano contratta in seguito a un banale incidente, morì all’età di settant’anni. Era il 21 novembre 1945 e con la sua morte scompariva uno dei primi pionieri italiani dell’igienismo alimentare e delle cure naturali.