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Il vegetarianesimo interpretato alla luce delle Sacre Scritture

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La lettera appassionata di un nostro lettore che riflette sulla scelta vegetariana e la religione, raccontando il suo amore incondizionato per gli animali e la natura.
Questa mia riflessione scaturisce da un interrogativo che più volte mi sono posto durante la mia vita: è giusto uccidere un animale per cibarsene? Tutto questo è conciliabile col comando divino di non uccidere?
Non sono mai stato un grande carnivoro, e da bambino (ma spesso anche in età adulta) erano più le volte che lasciavo la “fettina” nel piatto che quelle in cui la mangiavo: ero infatti disgustato da quell’odore di sangue pesto (non c’era sempre, ma quasi) che conferiva alla carne il sapore della putrescenza; la cosa che più m’irritava, oltre al disgusto in sé (e a quel sapore di morte) era l’incomprensione di chi voleva impormi quelle pietose pietanze: “Quale puzza? Io non sento nessuna puzza, per ME è buonissima…”. Un martirio, ma credo fossero a loro modo sinceri. Questa società ha gradualmente prodotto, infatti, nel corso dei decenni, un generale livello d’appiattimento programmaticamente finalizzato al mero indistinto consumo, e la maggior parte della gente ha perso la memoria olfattiva e l’ortodossia del gusto, avendo, per contro, acquistato (bell’affare) un distorto e acritico livello di conoscenza, non più capace, ad esempio, di riconoscere i cibi buoni da quelli cattivi.
Verso gli undici anni d’età, la repulsione descritta faceva spazio anche ad un’incipiente coscienza etica che s’interrogava sulla legittimità di tanta mattanza. Mi si poneva quindi come necessaria, ad onore d’onestà intellettuale, una netta presa di posizione davanti a questo dilemma. Ovviamente il passaggio al vegetarianesimo non fu né immediato, né totale, né definitivo: un bambino, presto adolescente, ha infatti da fare i conti con tante intrusioni esterne e non gli è sempre facile, quindi, il non lasciarsi distrarre nel perseguimento dei propri ideali e ambizioni naturali. Le “intrusioni” di cui vado scrivendo altro non sono che le tante, troppe forme d’aberrazione posteci da questa spietata cultura al consumo, che ha come obiettivo il progressivo allontanamento dell’uomo da sé e il tradimento, tragico, della propria vocazione individuale. Paradossalmente, oggi, il vero anticonformista è colui che rimane “conforme” a se stesso. È una cosa difficile ma che credo tuttavia ancora possibile. L’Occidente si è imbottito nel corso dei secoli di un impressionante antropocentrismo e soprattutto nell’ambito della tradizione giudaico-cristiana sono maturate tutte una serie di convinzioni, e loro conseguenziali atteggiamenti, che hanno poi portato a quest’idea di mondo da saccheggiare e da soggiogare. I risultati li vediamo, purtroppo.
Le Sacre Scritture, e in particolare il libro della Genesi, hanno regolato il rapporto tra creato, creatura umana e gli altri viventi. E un travisamento di questi comandi divini, secondo me alla base di tutti i disastri ambientali a cui assistiamo quotidianamente, è l’aver confuso il “giardino da custodire” di cui parla la Bibbia (cfr Gen 2, v.15 ) con la discarica da satollare (…e di cui poi dolersi) di cui parlano le cronache nere! E ancora: nella nostra attuale società civile, in tempo di crisi economica, si sente proferire da massime cariche dello Stato, tuttora e tragicamente, ancora la parola “crescita”! È successo di recente e nello specifico sono del tutto convinto che ciò sia avvenuto per assoluta ingenuità, ma questo comunque denota quanto codesta arroganza, codesto “ad-rogare”, codesto “chiedere oltremisura” sia ormai intimamente connaturato alla nostra cultura e in essa profondamente radicato come la metastasi d’un bisogno infinito.
Il pensiero che segue e che vorrei condividere con voi, parte proprio dal libro della Genesi ed è rivolto sia ai credenti che agli atei, sia ai cristiani che a coloro che professano altre confessioni religiose o filosofiche, contenendo delle verità universali e di facile lettura in chiave antropologica.
All’inizio di Genesi (1,29) Dio accorda all’uomo la possibilità sola di nutrirsi delle piante erbacee e loro semi. Dopo il peccato inizia l’e-voluzione (nel senso piano del termine) e tutto sembra complicarsi e subordinarsi al disegno di salvezza che verrà tracciato per l’uomo di lì a poco. Al cap. 3, v.17, il suolo è maledetto a causa del peccato e da allora sarà con fatica lavorato; al v.21, Adamo ed Eva, rimasti nudi, vengono rivestiti con pelli animali; al cap. 4, v.5, Dio gradirà esplicitamente l’offerta in sacrificio di animali da parte di Abele, mentre rifiuterà i semi e i frutti offertigli da Caino. Bisognerà attendere infine il cap. 9, ai vv.3-4: è qui che Dio concederà a Noè esplicitamente, dopo il Diluvio, gli esseri animali come vivanda, fatta eccezione per il loro sangue, la “vita”, secondo la tradizione sacerdotale (da qui l’uso delle carni “kashèr” nella cultura ebraica, perso in quella cristiana sebbene l’assemblea di Gerusalemme ratificò l’astensione dal sangue, rendendolo di fatto illecito fino ai nostri giorni: cfr AT 15,20).
Perché allora quest’inversione di rotta da parte del Creatore?, o meglio: perché questo “adeguarsi” in un certo senso al cambiamento di direzione-allontanamento ottenuto dall’uomo col peccato? Un Dio che si metta a fare scaramucce è alquanto improbabile. Piuttosto: l’uso di pellami e carni è conseguenziale sì al peccato dei progenitori, ma è soprattutto indizio della benevolenza e sollecitudine divina che, nonostante tutto, soccorre l’uomo e lo “copre” con la vita di altre sue creature. Adamo difatti consegue per tutta la Creazione la caducità universale, ove questo olocausto animale sembra essere ulteriore prova dell’amore divino per l’uomo.
Questo, ovviamente, apre la strada alla dimensione ultraterrena, quella d’un Eden futuro che più non è, di certo, il presente mondo. Il credente lo sa, vi spera e l’attende alla fine dei tempi; il non credente, per contro, constata che le realtà umane e terrestri convergono tutte verso lo stesso epilogo: la morte e la distruzione della materia (qualcuno parla di morte intesa come “trasformazione” – ma anche questo ciclo ha una fine – che è entropica ).
Altresì, questa speciale deroga ha aperto la strada, come dicevo poc’anzi, a mille fraintendimenti e ad una concezione del mondo fieramente antropocentrica, foriera d’infinite rapine e sconsiderate distruzioni perpetrate ai danni dell’ecosistema.
Il racconto di Genesi, si sa, contiene una provocazione e l’esegesi è pressoché ormai concorde nel considerare il peccato necessario alla crescita: esso è il momento dell’evoluzione, è cioè da qui in poi che l’uomo inizierà a misurarsi realmente con se stesso, sperimentando il limite e la difficoltà dell’esistenza. E il Creatore attenderà con amorevole pazienza questo cambiamento di direzione, quella “convèrsio” o “metanòia” che glielo riporterà finalmente libero interiormente, e dopo che, conosciuti il bene ed il male, avrà trascorso il suo tempo terreno a scegliere spontaneamente l’amore in luogo della sua negazione.
Ma dunque, è giusto o sbagliato cibarsi degli animali?
Io credo di no: il loro soccorso alla nudità dell’uomo e alla sua miseria è già presente e prescinde totalmente da ogni spargimento di sangue, ma più avanti vi dirò perché. Semmai si potrebbe cercare d’inquadrare la concessione di Dio rivestendola dell’assoluta eccezionalità: mi riferisco, ad esempio, ai gravi stati debilitativi in cui per il malato il sacrificio dell’animale diventerebbe il grande gesto di solidarietà d’un amico che gli dona la vita per salvarlo… ma anche così avrei più d’una riserva: chi deciderebbe?, e cosa direbbe al riguardo la povera bestia? Non so cosa ne pensiate, ma a me l'”armiamoci e parti” è stato sempre alquanto antipatico…
Direi quindi che per il non credente, l’uomo etico, l’onesto ateo, colui che agisce e vive secondo ciò che vede e considera la presente vita come l’unica dimensione concessagli, per coerenza verso la filocalìa esistenziale d’una scelta laica ma etica, vi dovrà essere il rifiuto assoluto di stendere la propria mano su qualsiasi essere vivente. Per il credente invece la questione si complicherebbe ed è qui che vorrei lanciare una provocazione: solamente colui il quale sia dotato di una Fede perfetta e viva nella consapevole attesa d’una futura promessa di bene e d’amore, potrà accettare la contraddizione, postagli innanzi dal Creatore, di tale olocausto!
Ma il punto è: la fede è una diàtesi dell’anima discontinua e piena d’incoerenza, chi potrebbe adunque veramente “comandare alle montagne di spostarsi”? Eppure Gesù dice che basterebbe una fede pari ad un granellino di senape per farlo (cfr Mt 17,20), eppure non si assiste tanto facilmente a mutazioni così repentine dell’orografia terrestre! Con questo intendo dire che prima di studiare tutte le argomentazioni volte ad arrogarsi il consumo di carne, laddove invece, abbiamo visto, essa è semmai una concessione, il credente dovrebbe impegnarsi di più su altri fronti: la solidarietà, la fratellanza, la condivisione, la carità verso il debole. Ma questo valga anche per il credente vegetariano: non ha senso, infatti, per esso, il preoccuparsi della “mondezza” dei cibi se poi il suo cuore è pieno di rapina. Gesù è stato molto eloquente in merito (cfr Mc, v. 1-23). Non mi ha stupito la frase d’una lettrice di questo giornale che, partecipando all’animato dibattito sul veganesimo/vegetarianesimo affermava grosso modo: “…preferisco le mie zie di campagna, che tirano il collo alle galline ma sono gentili con tutti, piuttosto che certi vegani coi loro scostanti atteggiamenti…”. E forse questa frase contiene anche un’altra verità ed apre la strada ad un ulteriore aspetto della questione: ciò che scandalizza veramente è l’uccisione degli animali in senso stretto oppure le “scientifiche” modalità industriali di sterminio in allevamenti-lager? Nella millenaria civiltà contadina infatti, che la follia mitomane d’un Novecento sedicente “progressista” ha voluto a tutti i costi sopprimere, il maiale, ad esempio, s’ammazzava una volta l’anno e DOVEVA BASTARE fino al successivo: all’epoca non esistevano le vaschette di polistirolo del supermercato, né tanto meno gente che mangiasse carne quattordici volte alla settimana!
A questo punto, analogamente come sopra, vorrei fare una considerazione sul veganesimo e il bisogno di sostenerlo: esso nasce dalle attuali modalità di allevamento degli animali e dal fatto che la gallina che oggi fa l’uovo, domani potrebbe essere servita in tavola con le patate, oppure dal rifiuto assoluto ed astratto di tutto ciò che provenga dal mondo animale? Se i vegani avessero la possibilità d’allevare una pecora ed una gallina e la pazienza d’accudirle per tutta la vita senza poi finire per ucciderle, continuerebbero a disdegnare la frittata con le cipolle e un bel maglione di lana vera, o no ? Non è dunque la loro indignazione, più che comprensibile,
frutto del tempo corrente? Non è essa la solita e squallida manifestazione dell’avidità umana e, da qui, d’un bieco commercio, che equo non è? Il compito del credente è, per concludere, qui come altrove, decisamente più arduo: egli è destinato a rimanere in bilico fra Cielo e terra, nella continua ascesi verso la Verità, e sempre ricordando d’aver avuto una concessione che è conseguenza del peccato (ma senza sensi di colpa, piuttosto: senso di responsabilità e di rispetto verso l’animale ). Bella l’osservazione di un’altra lettrice: “… la via della perfezione è lunga e tante sono le contaminazioni da incontrare lungo d’essa”.
 
GLI ANIMALI, NOSTRI COMPAGNI DI VIAGGIO (cfr. TB 6, I; II,4 )
Nel mio romitaggio alle pendici del Subasio, ho incominciato ad accarezzare un antico sogno: quello di vivere in armonia con tutto il creato. Ho chiuso le porte a tutte le pressioni esercitate dalla presente mentalità consumistica per lasciare spazio, in me, al buio del deserto creativo e riaprire gli occhi su di un’esistenza più umile ed umana. Sono stato sempre un amante attento e premuroso con la natura, anche da bambino, pur abitando in città; tuttavia ero anch’io spesso distratto (seppur con moltissime resistenze) da tutti quei fruscii di fondo dal mondo cosiddetto “civile”. Madre Natura sente molto bene se i propri figli l’amano e quand’è così, prontamente, risponde.
Rincasando m’imbatto spesso in volpi, tassi, cerbiatti, istrici, lepri, e tanti altri piccoli animaletti come ricci e, quando piove, rospi e ranocchie: vi lascio immaginare con queste ultime che dovizia di corsa ad ostacoli per evitare la carneficina! Questo mio atteggiamento di “silenzio” ha fatto sì che notassi tante piccole ma grandi cose che hanno veramente dell’incredibile, soprattutto per chi vive nel caos d’una città: gli animali riescono a sentire i tuoi stati d’animo e intervengono prontamente per offrirti la loro consolazione o per gioire con te! Non scherzo: soprattutto i volatili hanno una sensibilità sopraffina nel leggerti dentro, e non credo sia casuale il grande amore di Santo Francesco per essi!
I sacerdoti divinatori degli antichi romani, che dal volo degli uccelli traevano presagi, in realtà possedevano delle conoscenze che vanno ben oltre a ciò che s’è scioccamente per secoli definito come “superstizione”. Questo sentimento di diffidenza verso “l’invisibile” ha origini storiche ben precise ed è forse nella mentalità e metodo cartesiani che va inquadrata la sua attuale formulazione. Più volte mi sono chiesto perché mai “scientifico” dovesse essere solo ciò che soddisfaceva i canoni fissati da un matematico del Seicento che meglio avrebbe fatto, di certo, a non ficcare il naso nella scienza cosiddetta, per continuare, piuttosto, il giuoco dei numeri!
M’interrogo tuttora se questa “matematizzazione” della vita, dei saperi, del pensiero, se questo volere sempre “misurare” tutto e pretendere poi che il conto torni ( secondo una logica strettamente terrena ) non sia per caso l’ostinato ed ottuso negare le realtà dello spirito: non è questo, forse, un relegare tutto a mera materialità? Lo vediamo in tutti gli ambiti e cito ad esempio il caso della medicina “tradizionale” allopatica. Medici spesso bravissimi, grandi conoscitori dei singoli organi e del loro funzionamento, entrano di frequente in crisi davanti all’interdipendenza dei tanti “pezzi” d’un corpo, che però automobile di latta non è! Chi non ha mai sperimentato l’odioso quanto scoraggiante balletto dell’essere palleggiato da uno specialista all’altro? Chi di voi, poi, non ha mai assaporato la mortificazione, amara, inferta da quel medico che nemmeno vi guarda negli occhi per ignorare, così, le attese della vostra anima? Ma ancora, e prendo ad esempio la farmacologia: perché un medicinale allopatico, curando un disturbo, spesso crea problemi ad altre parti dell’organismo, fino ad allora “sane”? Se quello che scrivo fosse una stupidaggine, le scatolette dei farmaci non pullulerebbero di fogli e foglietti con la relativa pletora – patetica – di “controindicazioni”!
Ho un approccio decisamente olistico e cerco sempre l’origine vera di una patologia: non condivido una medicina che è impegnata dalla mattina alla sera a strangolare il sintomo; non me la sento d’ignorare i segnali che il mio corpo mi sta lanciando per comunicarmi, spesso, qualcosa d’altro! Certo, è chiaro che se stessi morendo per choc anafilattico non disdegnerei il cortisone, ma sono casi estremi.
Ma tornando alla vicinanza con gli animali, non c’è niente di più ricorrente, in occasione di miei stati d’animo pessimi, della visita di gufi e civette, le quali vengono a battere sui vetri della mia camera da letto. La prima volta ne rimasi allibìto anche se mai spaventato (pur avendo sentito per decine di volte la storia di gufi al capezzale di moribondi…), poi, occorrendo il fatto più volte, m’informai da un’assidua frequentatrice (nonché esperta di filosofie indiane) della nota comunità yoga presente nei miei luoghi; mi spiegò quanto quelle visite fossero tutt’altro che lugubri, essendo in realtà finalizzate a togliere di dosso le energie negative dell’ospite. Credo avesse ragione: in tante altre occasioni ho infatti visto i miei amici notturni volare a soccorrere la mia pena, così come tantissime altre volte ho assistito ad una gaia ridda di tanti piccoli uccelli sui davanzali della mia cucina in miei momenti d’allegra spensieratezza.
Grazie alla vita! e soprattutto grazie a chi l’ha creata! Non uccidiamoli i nostri amici animali, non cibiamoci di essi: la carne è fatta per essere baciata e non divorata! e anch’essi attendono la salvezza e l’avvento del Regno di Dio: non contrapponiamo la nostra malizia e cupidigia alla loro purezza, totale e scevra com’è da questi orribili mostri!
Ho un sogno: prendere con me una mucca ed allevarla fino alla naturale fine dei suoi giorni per godere della sua compagnia; non ho mai visto un animale così saggio, così paziente, così sereno. Un giorno, mentre ero in visita da un amico presso il suo podere, intravidi l’occhio d’un vitellino che timidamente mi scrutava dalla sua casetta di legno: il rievocare quell’esperienza, ancora mi molce il cuore! Quel giorno vidi nell’umiltà del suo sguardo Qualcosa che non è di questo mondo, Qualcosa che mi ricordava il bene e mi parlava d’Amore, Qualcosa che dalla profondità maestosa della Sua innocenza, metteva a nudo la piccolezza della cattiveria umana. In quell’occhio v’era uno squarcio d’infinito, insondabile, che mi parlava d’un inestricabile enigma d’Amore e di Sua ineffabile presenza.
Pace e Bene a tutti voi!    
Isacco di Ninive, Omelia 82
L’umile va verso le belve mortifere; al solo vederlo la loro ferocia si placa, si avvicinano a lui come al loro signore, scuotono la testa, leccano le sue mani e i suoi piedi. Essi infatti hanno sentito emanare da lui quell’odore che esalava Adamo prima della trasgressione, quando andarono a lui ed egli diede loro i nomi, nel paradiso (cfr. Gen2,20 ).
[…]
Egli va verso i serpenti più pericolosi e, quando la sua mano tocca i loro corpi, scompare la forza e la violenza della loro crudeltà mortifera; egli li prende con le sue mani come delle cavallette.
Tommaso da Celano, Vita prima 21,60
Una volta, presso Greccio, fu portato [a Francesco], da un confratello, un leprotto preso vivo al laccio, e il santo uomo, commosso, disse: “Fratello leprotto, perché ti sei fatto acchiappare? Vieni da me “.
Subito la bestiola, lasciata libera dal frate, si rifugiò spontaneamente nel grembo di Francesco, come in luogo assolutamente sicuro. Rimasto un poco in quella posizione, il padre santo, accarezzandolo con affetto materno, lo lasciò andare, perché tornasse libero nel bosco; ma quello, messo a terra più volte, saltava in braccio a Francesco, finché questi non lo fece portare dai frati nella selva vicina.

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