Educare significa stimolare e contribuire a determinare lo sviluppo intellettivo e morale degli studenti a partire dalla costruzione di un’adeguata formazione alla pratica di cittadinanza. Il ruolo del professore, oggi così screditato nel nostro Paese, è in realtà strategico e fondamentale sia per istruire e formare le future generazioni e, magari una più responsabile classe politica, sia per attivare una solida ripresa del sistema Paese. Chi, come noi, ha scelto la strada dell’insegnamento è pienamente consapevole del fondamentale compito che è chiamato ad adempiere e la passione che alimenta le sue azioni è la linfa vitale per ottenere un efficace risultato. Paradossale è invece la situazione che oggi si è venuta a creare per chi da aspirante professore insegna il merito e la competizione positiva ai suoi ragazzi, e si vede sottratto in prima persona il frutto di tale diritto.
Dopo la soppressione fulminea e calata dal Ministero dei precedenti corsi abilitanti silsis e l’attesa di quattro lunghi anni (2008-2012, ed io mi sono laureata nel luglio 2008 non un semestre in più) per veder riaffiorare un canale alternativo per garantire l’abilitazione ai laureati, è stato partorito, dall’equipe dell’ex ministra Gelmini, il TFA (tirocinio formativo attivo) grazie al DM 249/2010: un percorso di abilitazione di durata annuale ad accesso programmato che permette l’inserimento nelle graduatorie di II fascia. Oserei dire limitato, visto che dagli impressionanti numeri degli iscritti ai test di selezione di luglio, organizzati in fretta e furia tra errori di forma e nozionismo di sostanza, abbiamo superato altre due prove e siamo arrivati incolumi in neppure un decimo degli iscritti studiando e facendo valere la nostra preparazione. Catapultati in un percorso non privo di perplessità logistiche e con un costo di 2500-3000 euro circa (a seconda delle università, senza nessunissima forma di sostegno tramite borse di studio o assegni), siamo tornati tra i banchi dell’università con frequenza obbligatoria, corsi, esami e tirocini in classe (quando il Ministero lo permetterà), tentando di impegnarci il più possibile con l’idea di acquisire un titolo utile e indispensabile ad un futuro impiego più stabile – per quanto quest’etichetta abbia ancora senso nel mondo dell’istruzione pubblica italiana, considerando il più anziano corpo docenti di ruolo d’Europa. Almeno era questo nelle mie (e nelle tante) speranze quando ho deciso di partecipare con sacrifici al bando, perché ho iniziato a preparami quando, dopo tentennamenti, cambi di ministri e pause silenziose, sono comparse delle date certe, ma la vita da post laureata era già ben organizzata perché di aria non si vive e di apatia si muore.
La mattina ero docente di lettere in una scuola media dell’hinterland milanese (ovviamente supplente temporanea) e il pomeriggio part time per un editore, tre sere insegnavo italiano agli stranieri. Oggi adoro il mio lavoro, ma faccio ancora fatica a riconoscermi nel profilo dell’insegnante e questa condizione è gravosa da sostenere soprattutto pensando di doverla continuare a sostenere senza poter fissare un punto alla ricerca di un impiego; del tuo impiego. Queste parole per trasmettere il senso di un’umanità dietro all’asettico numero dei precari della scuola, perché spesso si ha la sensazione che sfumi il rispetto della dignità umana e che la Repubblica alimenti, più che riduca, gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana.
In quest’ottica ho letto l’arrivo di un decreto che modifica ed integra il precedente stabilendo l’attivazione fino all’anno accademico 2014-15 dei TFA speciali, ossia percorsi formativi abilitanti speciali, che “aprono l’accesso indiscriminato a tutte le scuole di ogni ordine e grado a decine di migliaia di persone non abilitate. Queste non dovranno sottoporsi a nessuna preselezione e selezione in ingresso, dovendo solo dimostrare ilmeritocostituito da un’anzianità di servizio di almeno tre anni, conseguita mediante contratti a tempo determinato in scuole statali, paritarie o nei centri di formazione professionale tra il 1999 e il 2012” (Andrea Ichino, La beffa per i docenti che valgono, Corriere della Sera). Unico requisito sono dunque i tre anni di supplenza, senza valutare molti elementi importanti: cosa si è effettivamente insegnato in questi anni (se la propria materia o quella per cui si è stati chiamati dalle scuole), dove si sono svolte le supplenze (se nelle scuole primarie o secondarie), come è stata valutata la qualità dell’insegnamento prestato, come si è insegnato se con passione, perché si è scelta questa professione (per amore o per ripiego). Inoltre ancor più paradossale è la situazione di chi, come tanti di noi, pur avendo un’anzianità di servizio superiore ai tre anni, ha partecipato alle selezioni trovandosi di fronte all’unico decreto reale sull’accesso al tfa e oggi frequenta i tfa ordinari con il riconoscimento di importanti sgravi. Pur avendo i requisiti per accedere al tfa speciale, però,questa via riservata appare a concorsi conclusi e corsi già avviati, risultando specialmente rivolto a quanti non hanno superato i test di ammissione o non li hanno neppure tentati. “Quindi anche loro, come i giovani che hanno potuto solo tentare la strada normale, sono oggi beffati da chi è stato bocciato in autunno o ha accuratamente evitato il rischio di una bocciatura” (Andrea Ichino, La beffa per i docenti che valgono”, Corriere della Sera).
Allora la mia domanda sorge spontanea, in un misto di amarezza e delusione: che senso ha avuto aver organizzato il tfa ordinario a numero chiuso, illudere chi ci ha creduto, obbligare i candidati a mesi di studio e prove, se con il tfa speciale si arriverà ad ottenere lo stesso titolo semplicemente aspettando e accumulando anni di anzianità? E il quesito di fondo, frutto di una perplessità e di un disagio più profondi, è quello espresso dallo stesso Ichino: “perché in Italia il diritto acquisito per anzianità deve sempre prevalere sulle capacità?” quando il nostro Paese avrebbe fortemente bisogno di fare il contrario: “Competizioni aperte a tutti, vecchi e giovani, ma non tutelare chi ha l’unico merito di aver messo un piede tra lo stipite e la porta aspettando di poter passare in qualche modo” con quella, che da molti viene, definita una vera sanatoria. (Andrea Ichino, La beffa per i docenti che valgono, Corriere della Sera).
E beffa, delle beffe: tutti coloro che conseguiranno il titolo di abilitazione tfa, ordinario o speciale, avranno diritto ad essere inseriti nelle graduatorie di II fascia con l’aberrante risultato di fatto che chi ha alle spalle più anni di solo servizio, senza aver sostenuto alcuna selezione di merito, acquisirà in graduatoria un posto decisamente superiore grazie al punteggio legato al servizio. Questa decisione appare ingiusta agli occhi di chi nel merito ha investito e continua ad investire, senza considerare che il tfa ordinario riconosce e valorizza ampiamente l’anzianità di servizio poiché chi ha già tre anni di insegnamento è tenuto a svolgere molte meno ore di tirocinio e usufruisce di cospicui sconti sulle didattiche. E infatti, molti docenti non abilitati con anzianità di servizio hanno svolto, insieme a noi, le prove del tfa ordinario e le hanno superate quando potevano tranquillamente fidarsi delle parole del ministro Profumo che ha promesso l’approvazione dei tfa speciali a pochissima distanza dall’emanazione del bando per adattarsi alle normative europee – che giustamente garantisco l’avvenuto tirocinio a chi ha più di tre anni di insegnamento, ma in un sistema d’istruzione che non funziona tramite graduatorie; quindi non si crea l’insostenibile contraddizione di poter entrare nelle classi come supplente solo con il titolo di laurea e non con quello di abilitazione. Né va dimenticato che questi “anziani” hanno avuto più ed altre occasioni per potersi abilitare poiché dal 1999 al 2008 avrebbero potuto sostenere i corsi abilitanti silsis, ma molti di loro non hanno sfruttato né questa possibilità pregressa né quella offerta dal tfa ordinario, preferendo attendere quella che agli occhi di molti appare come l’ennesima sanatoria, con il triste risultato di compromettere ancor di più la reputazione del corpo docenti e l’offerta didattica nei confronti degli studenti.
Vorrei che il merito fosse nelle proposte e non solo sulla bocca dei politici, vorrei ottenere un titolo che mi permetta di essere riconosciuta come una professionista in modo oggettivo, vorrei una maggiore consapevolezza di ciò che ci sta succedendo come Paese e di quanto sia fondamentale ripartire dalla scuola, dalla ricerca e dalla cultura. Non vorrei, di contro, intraprendere una “guerra tra poveri”, bensì garantire a chi ha scelto la strada della professionalizzazione con i titoli il giusto riconoscimento e un punteggio adeguato, senza per questo svilire l’anzianità di servizio che può certamente costituire un requisito importante ma non certo l’unico per un insegnante di qualità. In questo momento fatto di tante parole e di poche prospettive, così poco attento a ciò che dovrebbe essere il corpo docente italiano, vorrei che qualcuno si indignasse.