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La sacralità del pane

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Un nostro lettore, Riccardo Guerrieri, ci segnala questo bellissimo brano tratto da “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta. Il tema è il pane, la sua sacralità e le relazioni sociali che nelle comunità si creano intorno ad esso. Terra Nuova ha deciso di dedicare la Bioagenda 2015 proprio al pane.
IL PANE
Tutto si raccoglieva in casa, tutto si lavorava in casa, e per questo c’erano intorno alla corte delle casette rustiche, ognuna delle quali prendeva il nome dai doni della terra che custodiva, la casetta dell’olio, la casetta del grano, la casetta della frutta e in più c’era la casetta del forno, che era come un’altare, o una tomba etrusca, coi setacci, i crivelli, le còrbule, sas canisteddas (i canestri, piccoli e grandi, di foglie di palma) appesi alle pareti. Per cuocere il pane venivano donne del vicinato; perché l’impresa era grossa, e bisognava impastare, tirare la pasta in larghe sfoglie, passarle una a una alla donna che sedeva presso la bocca del forno, con le cocche del fazzoletto rialzate sulla testa, il viso illuminato nell’ombra. Questa metteva la sfoglia su una pala liscia e sottile, di quelle che fabbricavano d’inverno i pastori di Tonara, immobilizzati dalla neve, e scendevano a venderle a Nuoro di primavera, sui loro magri cavalli; infilava l a pala nel forno e la sfoglia al calore diventava, se era ben fatta, un’immensa palla, che veniva passata a un’altra donna seduta con le gambe in croce davanti a un panchetto, e con un coltello la ritagliava lungo i bordi, e ne venivano fuori due ostie fumanti che pian piano s’irrigidivano, diventavano croccanti, e andavano a formare le alte pile che poi si sarebbero infilate nella credenza. Dal fondo di quali millenni fosse venuto quel pane Dio solo lo sa: forse lo avevano portato gli ebrei che erano stati risospinti dall’Africa nei tempi dei tempi. Il lavoro aveva la solennità di un rito, anche perché si protraeva fino alla mattina, e le ore tarde portavano il silenzio: i ragazzi sgusciavano nella porticina stretta, avvampavano al calore, s’inebriavano del profumo di pane e di ceppi ardenti di lentischio, rapiti dai guizzi delle fiamme sulle pareti fumose, ma anche un poco intimiditi da quelle donne operose, che erano serve. Queste vedevano con occhi festosi i figli del padrone, e come in un gioco di prestigio in pochi secondi preparavano un pane rotondo, in forma di anello, che immergevano rapidamente nell’acqua, dove sfrigolava come il ferro rovente, e ne usciva lucido e terso come uno specchio: invetriato, appunto si diceva. Era un momento di gioia per loro e per i ragazzi, che si sentivano tutti uniti da quella cosa ineffabile e senza padroni che è la vita.
Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, 1979
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