Lockdown climatico
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che sapevano leggere il paessaggio; loro sì che sapevano pulire il bosco; loro sì che sapevano tenere puliti i fossi; loro sì che…Ad ogni modo non ci sono, non li hai nemmeno mai conosciuti essendo nata e cresciuta in un’anonima città del Nord industriale, e se è pur vero che con loro se ne sono andati i saperi, i consigli e i segreti, in questi momenti non ci si può di certo far vincere dalla nostalgia del tempo che fu.
E allora via, si continua, reinventandosi.
Il territorio di cui fino a poche ore fa conoscevi alla perfezione curvature, odori, orizzonti e consistenze, già visibilmente modificato dalla siccità degli ultimi mesi che ne aveva prosciugato l’essenza riducendo il bosco
a un terreno secco e polveroso, ora è drasticamente mutato, e ritrovare il proprio posto in questo cambiamento non è immediato. Per questo l’importanza del fare, partendo da piccoli gesti di cura tanto del paesaggio quanto di sé e di chi, insieme a te, sta assimilando la trasformazione. Sono questi infatti i momenti in cui la quotidianità con il vicinato si fa più calda, intensa, intima: le macchine che non possono più circolare lasciano spazio alla viandanza , e sulle strade incontri volti sconosciuti che non è più possibile ignorare. Un cenno del capo, uno sorriso, l’aggiornamento rispetto alla presenza o meno dell’elettricità o delle sigarette, un breve scambio d’opinione sulle responsabilità del disastro, alcune ovvietà sulla crisi climatica e sul fatto che non ci siano più le quattro stagioni, grazie, arrivederci e poi via, a piedi, ostaggi del turismo della catastrofe a casa propria, camminando fin dove la frana lo consente, immersi in un’atmosfera vaporosa e densa.
Devo ammettere che c’è un buon odore qui, nel bel mezzo del mondo capovolto: odore di corteccia fresca, di linfa vegetale, di argilla. E’ come avere il naso dentro il tronco di un albero. Echi di alberi cadenti giungono come rintocchi di campane, ovattati da un silenzio che è quasi totale. Anche se sono cosciente che la situazione qui sia migliore rispetto ad altre parti, mi sento catapultata sulla prima pagina di Internazionale.
Mi vedo dall’alto: un inconsistente essere umano con indosso la giacca giallo canarino della North Face e la videocamera in mano, immersa in radici al vento, terra e cavi sfilacciati, sponde apparentemente immobili che mi spaventano e mi attraggono, spingendomi a fare ancora un passo, fino a dove il fango non blocca lo scarpone manifestando tutta la sua forza.
Passano le ore e trascorre la prima notte di questo lockdown climatico. Il cielo oggi è più sereno e ha smesso di piovere.
Lo senti questo rumore, mi dice il vicino togliendosi il sigaro dalla bocca: “Questa è musica per le mie orecchie!”. In lontananza percepisco il frastuono degli alberi in caduta libera e il suono delle sirene: sono arrivate le ruspe.
C’è chi dice che siamo salvi, che siamo di nuovo liberi.
Non so bene come mi sento, ma provo una discreta paura nel tornare alla normalità.
Ricordo male o si diceva che fosse proprio questa il problema?»